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Questa estate tumultuosa e per molti aspetti angosciosa, spinge con forza chi non voglia abbandonarsi ad una paralizzante, pura paura del futuro a ricercare una visione del mondo che aiuti a inquadrare il presente come una fase di inquieta (forse ambigua ma perciò stesso anche promettente) transizione più che come un lento scivolare verso la fine della storia di quel mondo occidentale in cui sono radicate le nostre memorie, la nostra cultura, le nostre certezze e le nostre speranze.
Gli ultimi cinquant’anni della storia del mondo hanno visto l’erosione progressiva dei quattro superpoteri detenuti dall’Occidente: il potere hard per eccellenza (quello militare) rimane ancora rilevante, ancorché incrinato da esperienze sul campo (dal Vietnam all’Afganistan, alla Libia, tanto per fare esempi) che non hanno fatto altro che mostrarne i limiti pratici; dei poteri soft (quello cultural-tecnologico, quello economico e quello finanziario) non resta forse che un’ampia porzione di quello cultural-tecnologico: i tassi di crescita economica dei paesi emergenti denotano una vitalità giovanile che l’Occidente ha perso e presso i fondi sovrani di questi ultimi si allunga la fila dei paesi occidentali alla ricerca di un sollievo finanziario (l’Italia è fra questi dopo tante smargiassate enunciate sulle modalità con cui si va realizzando la penetrazione di merci cinesi sui nostri mercati).
I totem dell’Occidente si incrinano e le pressioni del resto del mondo aumentano, come era facile prevedere: esistono ancora, non ostanti gli insegnamenti del crack della Lehman, banche too big to fail? Gli Usa stessi possono fallire? Non valgono più la tripla A, simbolo dell’assoluta affidabilità finanziaria: che scossoni genererà il down-grading? L’Europa resiste alle sue stesse inadeguatezze? Sono ancora compatibili le pretese di residue sovranità statuali, dopo che l’Europa ha giocato l’affascinante scommessa dell’Euro? E l’Euro stesso reggerà alle sue contraddizioni? Può la moneta comune restare comune se i debiti dei paesi aderenti restano individuali? E gli Europei saranno in grado di avanzare nel percorso che i loro padri avevano disegnato? Il cieco rigurgitare dei nazionalismi potrà essere ricondotto a ragione? Come si assesteranno le questioni africane (dalle rivoluzioni dei paesi mediterranei alla sconvolgente crisi alimentare nell’Africa orientale)? Le rivendicazioni dei paesi ad alta pressione demografica potranno essere incanalate e gestite con saggezza? La loro ansia di crescita, a costi e standard di vita per noi inattingibili, è gestibile per una pacifica ricomposizione degli equilibri? Non dovremmo, finalmente, fare i conti con un concetto di giustizia sociale universale che possa pacificamente e progressivamente prendere il posto delle diverse giustizie sociali che i Paesi dell’Occidente hanno tentato, ciascuno a suo modo, di gestire all’interno di se stessi?
Tutte domande inquietanti alle quali è assai arduo dare risposte rassicuranti; e quelle poche che riuscissimo a mettere insieme sarebbero tali da implicare costi ed adattamenti che facciamo fatica a pensare (e che faremmo fatica ad accettare, quasi come se tali costi e tali necessari adattamenti dipendessero dalla nostra accettazione).
In questo contesto, il nostro misero Paese balla la sua folle tarantella al suono di una classe di suonatori che si è rivelata meno che inadeguata, che fino a poco fa bollava come menagramo chi vedeva con chiarezza dove stavamo andando a sbattere la faccia inutilmente imbellettata, che si masturba con stupide querelles dal sapore paesano con le quali tenta di occultare la percezione dei veri problemi.
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Se questo è il quadro (qui non si tratta di essere ottimisti o pessimisti: l’uomo non conosce il proprio futuro e perciò non sa quello che accadrà domani, ottimismo e pessimismo sono i nomi con cui esorcizza la propria ignoranza del futuro. Qui si tratta di essere realisti, come agli uomini saggi è richiesto: e si può essere realisti contenti se il presente appare confortante e realisti scontenti, e io sono fra questi, se il presente appare sconfortante), se questo è il quadro , dicevo, a che tipo di visione del futuro agganciare la speranza che ci incombe come dovere, di uomini prima ancora che di cristiani?
Alla luce di questa domanda ho provato a rileggere a quasi due anni di distanza dalla prima lettura quello straordinario documento che è la Caritas in Veritate, forse l’unico documento (almeno fra quelli a me noti) che, al di la della sua “confessionailità”, si sforza di parlare con semplicità, passione e profondità, in generale “a tutti gli uomini di buona volontà”
Al di là del forte richiamo al senso che da cattolici abbiamo imparato (o avremmo dovuto imparare) ad attribuire alle due parole (Caritas e Veritas), mi pare utile, nel quadro di quanto andiamo qui dicendo, sottolineare il respiro antropologico dell’insegnamento della Chiesa nel documento benedettino.
Non alludo solo a quella inequivoca riconduzione all’uomo che l’enciclica fa di ogni concetto o strumento di cui si avvale l’operare dell’uomo moderno: tecnica, sviluppo, mercato, finanza, globalizzazione ed anche delocalizzazione, etc. non sono un bene o un male in sé come qualcuno si sforza di far credere per ormai inutili pulsioni ideologiche, ma, appunto, strumenti che l’uomo può volgere al bene o al male a seconda dell’uso che ne faccia; ed anzi, un uso saggio delle straordinarie possibilità che si possono legare ad essi attribuisce al presente una straordinaria ricchezza di opportunità che è necessario cogliere.
Alludo invece, forse più profondamente, alla misura ”umana”, anche solo razionale, di quel bene o male che l’uomo può trarre dall’uso di questi strumenti/concetti, anche solo in base alla ragione: “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro” (C.in V. 19). E questa constatazione, ancora pre-religiosa, già ci consente di fare molti passi avanti nella comprensione di ciò che può costituire la chiave degli equilibri che il futuro sarà chiamato a ridisegnare: è semplicemente ragionevole che il 40% della popolazione mondiale detenga quasi il 95% del GDP del mondo stesso? E che l’Italia, con l’1% della popolazione mondiale, detenga il 4% di questa ricchezza? Può durare a lungo questo squilibrio, certo non nuovo ma oggi estremamente più instabile?
Se la risposta è no, come credo realistico pensare, allora occorre fare i conti con dinamiche che potremmo gestire ( se ne avessimo la saggezza) ma non eludere (come forse qualcuno si illude): e questo significherà senz’altro ripensare alle modalità con cui si ripartisce la ricchezza del mondo, accettandone, da (finora) privilegiati, le conseguenze. Non può non esistere, ci dice la Caritas in Veritate (e ci diceva più di 40 anni fa, evidentemente inascoltata, la Populorum progressio), il problema di una giustizia sociale globale in un mondo che è appunto globalizzato! Anzi, “lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione e che si dia finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all’ordine morale e a quel raccordo tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato nello Statuto delle Nazioni Unite.” (C.in V. 67)
Per fare questo, e siamo ancora in un ambiente argomentativo pre-religioso, occorre avere coraggio anzitutto nelle analisi e poi nelle azioni conseguenti; e per avere coraggio, quando si governano delle democrazie, occorre avere capacità (leadership) di guidare le pubbliche opinioni, facendo comprendere situazioni e prospettive, ed anche facendo innamorare delle straordinarie sfide che, volenti o nolenti, comunque dovremmo affrontare.
Di fronte a noi, comunque vogliamo viverlo, c’è l’incombere di profondi riaggiustamenti degli equilibri economico-finanziari e sociali, che è assai più saggio accompagnare e gestire che solo contrastare.
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Fin qui, anche con la sola ragione (a volerla e saperla usare). Ma la nostra amata condizione culturale di cattolici ci provoca ad una visione più profonda, perché, come avverte la Caritas in Veritate, “la ragione, da sola, è in grado di cogliere l’uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza civica tra loro” (C.in V. 19)”, ma essa “non riesce a fondare la fraternità” (ibidem) e la fraternità è il fondamento della carità nella Verità, e quindi la guida delle concezioni antropologiche cristiane basate sulla paternità di Dio.
Qui la Caritas in Veritate è ricca di pagine di altissima spiritualità. Non posso esimermi dal riproporre qui un largo brano della lettera enciclica, che mi pare indicativo del percorso che il cattolico ha davanti nel considerare la sua posizione sul tema che ci occupa: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli: « Senza di me non potete far nulla » (Gv 15, 5) e c’incoraggia: « Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28, 20). Di fronte alla vastità del lavoro da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella Populorum progressio che l’uomo non e` in grado di gestire da solo il proprio progresso, perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie a servizio di un vero umanesimo integrale”. (C.in V. 78)
Alla luce di queste parole dalle quali (ri)emerge con forza il concetto di umanesimo integrale, le argomentazioni della ragione si arricchiscono di una connotazione etica della nostra visione del futuro alla quale agganciare la speranza che ci incombe come dovere. Il nostro pensare il futuro, le nostre azioni politiche conseguenti (per quanto diverse fra loro possano essere per intensità ed impegno), la nostra cultura del futuro, sono chiamati ad una sintesi fra gli insegnamenti della ragione e gli stimoli di una antropologia cristiana che, entrambi, conducono verso una accettazione attiva delle dinamiche globali in atto. Strada impervia, bisogna ammetterlo, particolarmente nel contesto delle attuali condizioni culturali del nostro Paese e forse non solo di questo; ma non per questo impossibile, specie se, come temo, gli scossoni che il mondo occidentale sta ricevendo non sono finiti.
Ma anche qui sorge un problema di leadership culturale, starei per dire di caratura globale: gli ultimi 50/60 anni hanno espresso personalità che sono risultate in grado imprimere inattese accelerazioni alle visioni del mondo del loro tempo (penso, per esempio, a Giovanni XXIII, a Gorbachev e, per certi versi,anche a Giovanni Paolo II) ma attualmente non ne vedo possibili eredi.
Per quanto poi riguarda le povere cose del nostro malmesso paese dico subito che una leadership del genere, anche solo a valenza interna, non ritengo possa essere assunta, come pure pare prospettarsi, dai Vescovi. Non ho poi alcuna fiducia, lo dico qui per connessione di materia, in un nuovo partito cattolico (o cristiano che voglia dirsi): troppi errori, anche clamorosi, sono stati fatti in esperienze passate, troppe scelte sbagliate di priorità, troppo grave l’incapacità di valutazioni adeguate dimostrata in tante occasioni anche recenti, troppo spesso si è dimenticato quanto pure ripete (n.56) la Caritas in Veritate (“La ragione ha sempre bisogno di essere purificata dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente. A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo molto gravoso per lo sviluppo dell’umanità”.), troppo debole la percezione della condizione minoritaria del nostro ambiente e troppo pregiudicata la loro credibilità meta-ambientale (ovviamente con qualche rara eccezione).
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Sarebbe giunto il momento di trarre delle conclusioni da questo vagare tra ragione, fede e politica; ma confesso di non saperne trarre al momento. Mi sorge il dubbio che il possibile da fare, per ora, non possa avere che natura di semina culturale, il che è veramente troppo poco di fronte alle urgenze che abbiamo davanti.
Eppure, nonostante ciò, la semina culturale è una necessità (e un dovere) anche se i tempi di attesa dei frutti non può essere che lunga: “lo sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” (Populorum Progressio, 42) rimane un obbiettivo, civile, economico ed etico, cui non possiamo sottrarci senza gravissimi rischi, appunto, civili, economici ed etici.
Parlare di semina culturale nelle materie che ci occupano non vuol dire diffondere irenici messaggi, facilmente banalizzabili con lo stupido concetto di buonismo. Vuol dire invece:
- partire da una profonda e diffusa e realistica lettura di dati noti (tendenze economiche, demografiche e sociali di lungo periodo), da incrociare fra loro esplicitamente per capire dove stiamo andando, ci piaccia o no. Questi dati esistono, non bisogna fare fatica per metterli insieme, bisogna solo guardarli con lucidità.
- Vuol dire prendere e trasmettere coscienza che le tendenze in atto sono destinate ad accelerarsi e che il livello delle ricchezze del mondo è destinato a ridistribuirsi, anche rapidamente.
- Vuol dire rifiutare categoricamente ogni indulgenza verso il becerismo col quale politici irresponsabili, incolti, inadeguati a gestire un paese moderno, impostano ogni problema correlato ai fenomeni migratori, che non fermeremo con volgari proclami di egoismo ma che potremmo invece gestire assumendo una autorevole leadership umanitaria e politica che ci consenta anche di indirizzare l’Europa verso leggi giuste e rispettose. E poi (questa domanda ce la siamo già fatta, La sferza, quanto capitolo) anche valutando le cose guardando solo al nostro ombelico, che cosa ci rende cosi sciocchi da imbarbarire di propaganda e di volgarità la comprensione e la gestione di un tema così delicato per il nostro futuro? Quale è, non diciamo la finalità strategica, ma semplicemente il banale interesse che abbiamo ad inasprire il rapporto con questo flusso di giovane sangue che può rinvigorire il nostro stanco Paese?
- Vuol dire concentrare l’attenzione ( e gli investimenti) sull’unica leva (il soft power cultural-tecnologico che ancora l’Occidente detiene) che potrà consentire di graduare nel tempo l’avverarsi dei fenomeni in atto, non per trattenere egoisticamente un’egemonia culturale ma solo per compensare la velocità dei fenomeni di spostamento della ricchezza.
- Vuol dire soprattutto lavorare per un’antropologia inclusiva (melting pot? Multiculturalismo? Non so) realistica ed etica.
- Vuol dire, ancora, per quanto riguarda questo nostro povero orticello italiano, la piccola porzione una volta fiorita di quest’aiola che ci fa tanto feroci (Dante, Paradiso XXII),accettare in fretta il nuovo posizionamento che ci attende comunque, gestendone la transizione con umanità e cultura.
- Vuol dire infine, per noi cattolici, ricordare ogni giorno l’ammonimento di Paolo (1Cor):”Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete di Cristo e Cristo è di Dio”.