Non è esercizio inutile quello di cogliere il nesso fra tre vicende di etica pubblica che hanno occupato le cronache più recenti: il disconoscimento elettorale del furente moralismo antiberlusconiano; le arroventate polemiche sul lassismo della Chiesa nei confronti dei preti pedofili; e il rifiuto della pillola abortiva da parte di alcuni presidenti regionali in potenziale rivincita vandeana contro scienza e modernità. Sono vicende che indubbiamente hanno valenze delicate e non transeunti; e che meritano adeguata e impegnativa riflessione. Per aprirla, in toni forse semplificatori, non è del tutto azzardato partire dalla constatazione di una inattesa novità: la caduta verticale del «reato» come principale concetto di riferimento nella regolazione dei comportamenti individuali e della convivenza collettiva.
È una caduta che ritroviamo nel moralismo antiberlusconiano, dove l’ enfasi giustizialista e la condanna morale sostituiscono il perseguimento concreto di reato e pena; che ritroviamo nelle polemiche antiecclesiali, dove una eclatante chiamata in causa di vescovi, cardinali, pontefici, sostituisce un concreto perseguimento dei singoli responsabili (difficile per i giudici, con poche garanzie di risarcimento per gli avvocati); e che ritroviamo anche in alcuni presidenti regionali che non considerano reato la non applicazione di una legge nazionale che il religioso sentire del proprio elettorato considera peccaminosa. In ognuna delle tre vicende il reato, il primato del reato, non funziona più. Vincono le denunce, gli scandali, le campagne mediatiche, ma il reato e la sua repressione vengono nei fatti messi in secondo piano.
Di fronte a tale novità non è inutile ricordare che per molti secoli il «reato», come trasgressione della legge civile, è stato susseguente e quasi subalterno al «peccato», come trasgressione della legge divina e del diritto naturale in essa velatamente incorporato. Il divieto di rubare o di uccidere è stato imposto dalle norme religiose molte centinaia di anni prima di essere codificato nella legislazione penale degli Stati. Ma erano norme semplici, adatte a società semplici e a comportamenti tutti individuali e quasi primordiali; poi la società è diventata sempre più complessa e la sua regolazione molto articolata. Non bastavano più dieci «comandamenti», occorreva un complesso apparato pubblico (un parlamento volto a innovare la legislazione e una coerente amministrazione della giustizia) capace di dare alle norme una continua evoluzione e quindi una superiorità storica, più che valoriale.
Così nel tempo la devianza dalle norme statuali diventa reato, che sostituisce il peccato come regolatore dei comportamenti; al richiamo di una forte etica individuale si sostituisce il bisogno di sicurezza collettiva; alla ricerca della vita buona (la richiesta e la concessione del perdono a chi si è comportato male) si sostituisce la «legalità», parola mitica della modernità per come l’ abbiamo realizzata negli ultimi secoli. Ma la crescente complessità sociale, che aveva messo in crisi il primato dei comandamenti, sta cominciando a mettere in crisi anche il più laico valore del reato. Non sfugge a nessuno che oggi la società è immersa in una sorta di vocazione alla sregolatezza che ha coinvolto sia la sfera individuale, segnata da egoismi e soggettivismi senza fine; sia la sfera collettiva e istituzionale, segnata da furbizie e arroganze di ogni tipo. Siamo pieni di nobili richiami alla legalità, ma tutto restiamo in una realtà indistinta, spesso decisamente confusa, di contrasti non solo valoriali ma anche giurisdizionali. Ne soffrono, e ne sono insieme i testimoni, i due poteri su cui tutto il problema si giuoca: quello parlamentare che determina le norme, e quello giudiziario che le applica. Il primo è sempre più condannato ad una bulimia normativa che rincorre e codifica un crescente numero di fattispecie di reato, senza la coscienza politica che «quando tutto è reato, nulla è più reato» (fattore essenziale della citata confusione). E in parallelo corre il disagio del potere giudiziario: avviene sempre più spesso che i magistrati maturino una esplicita sfiducia nei loro strumenti di azione, troppo condizionati da tempi lunghi, prescrizioni, condoni; e si sentano costretti in tutta onestà a comminare (usando avvisi di garanzia, intercettazioni, campagne di stampa) l’ unica pena rimasta possibile: lo sputtanamento di chi in coscienza essi ritengono colpevole. Siamo avvolti più dal giudizio generico sui peccati che dall’ operoso perseguimento del reato; e i magistrati (loro, i sacerdoti del reato) hanno solo da dirci che qualcuno «ha peccato, in pensieri, parole, opere e omissioni».
Un ritorno silenzioso e sottile del peccato come riferimento implicito delle devianze sociali è quindi nelle cose.
Siamo troppo occidentali e libertini per aver timore che si arrivi, magari sull’ esempio islamico, a una regolazione religiosa dei nostri comportamenti. Ma rischiamo che un po’ di sottile fondamentalismo sia dietro l’ angolo: magari laicamente espresso, magari con localistico piglio vandeano, magari con qualche rinverdita guerra di religione. In nessun caso sarebbe un gran passo in avanti.

(dal corriere della sera 15.4.2010)