Il grande dibattito sulle presunte armi di distruzione di massa irachene, avviato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e allargatosi a platee sempre più ampie fino a raggiungere i caffè di buona parte del mondo occidentale, sta creando in molti una strana convinzione. Cioè che l?America, dopo l?11 settembre, non si identifichi più in quello che era il messaggio del testamento spirituale di George Washington. Vale a dire l?idea che gli Stati Uniti sono una nazione sicura entro le proprie frontiere.
Clinton prima, Bush poi sembrano aver posto alla base della loro politica estera l?idea che la fine della Guerra Fredda abbia lasciato al loro paese il compito di dare compiutezza al concetto di pace globale. Intesa, logicamente, come espressione di una pax americana e di una rinnovata esigenza di sicurezza nazionale, grazie alla nascita di soggetti della comunità internazionale magari dotati di strutture democratiche e condizioni di vita accettabili.
Ecco dunque l?impegno in Somalia nel 1993, ad Haiti nel 1994, in Bosnia ed Erzegovina con il trattato di Dayton del 1995, in Kosovo dal 1999 e in Afganistan nel 2001 e infine in Iraq.
Se già nel 1966, all?apice dell?intervento americano in Vietnam, l?allora segretario alla difesa Robert McNamara deplorava la tendenza a considerare il problema della sicurezza nazionale solamente dal punto di vista militare, nasce un dubbio. Questo: quale potrebbe essere l?impegno attuale dell?America in Medio Oriente per una presenza di lungo periodo a costi economici crescenti, perdite di uomini e un diffuso senso di antiamericanismo? Era quanto gli analisti del Pentagono speravano di veder scomparire con la destituzione del dittatore iracheno, la cronaca di questi mesi sta dando loro torto.
Seconda domanda: che possibilità ha l?amministrazione di Bush Jr. di non rimanere intrappolata in una vietnamizzazione del conflitto? Le probabilità non sono poche, visti soprattutto alcuni fattori come l?ostilità strisciante delle forze moderate, la Guardia Nazionale pronta a riapparire in qualsiasi momento e il coinvolgimento di forze irregolari non irachene, siriane, iraniane, saudite, il cui obbiettivo, in nome dell?Islam, è quello di incrementare il numero di morti fra le forze di occupazione della Coalizione. Per Mark Brzezinski, ex direttore per gli affari Russi ed Euroasiataici per il Presidente Clinton, questo è il primo ostacolo che l?America deve evitare. Per gli Stati Uniti in particolare, e più in generale per la comunità internazionale, la stabilizzazione della regione, attraverso un?armonizzazione di rapporti fra l?Iraq e i suoi vicini, è di prioritaria importanza, essendo diventato il Medio Oriente il campo di addestramento della marea terroristica degli ultimi trent?anni.
?La costruzione di nazioni democratiche è certamente un obbiettivo difficile ma nobile che gli Stati Uniti hanno perseguito negli ultimi cinquanta anni con diversi gradi di successo? afferma Richard Holbrooke, architetto del Trattato di pace di Dayton, in un?intervista di Gerard Baker apparsa sul Financial Times del 30 giugno 2003.
L?esperienza e l?ispirazione nascono, soprattutto, dagli esempi della ricostruzione del secondo dopoguerra di Germania e Giappone attraverso l?imponente contributo americano alla crescita economica, sociale e culturale. Ma è roba di cinquant?anni fa. Più recenti sono gli insuccessi in Somalia e Haiti.
Una delle grandi differenze fra questi casi vanno cercate nei diversi gradi di sviluppo di partenza delle nazioni prima dei conflitti e nella consistenza della presenza americana su questi scacchieri, ma non solo. Nel caso di Germania e Giappone si trattava di paesi con esperienze di governo democratico, sistemi economici ed industriali avanzati, omogeneità etnica. Nel caso della Bosnia Erzegovina le tensioni non sono ancora cessate e la presenza di contingenti europei con compiti di interposizione è la prova che i processi di costruzione democratica sono lungi dal concludersi in pochi mesi o come una certa propaganda politica americana, sosteneva, in settimane. Nel caso dell?Afghanistan le forze americane hanno di fatto pacificato la regione di Kabul, ma sacche di resistenza talebane e di altri signori della guerra amministrano ancora le province più lontane dalla capitale.
La lezione è valida anche per l?Iraq. Richard Haas, capo del Consiglio per gli Affari Internazionali della Casa Bianca, sostiene che i processi di costruzione democratica sono qualcosa di profondamente intrusivo e che pertanto la loro realizzazione, in Iraq come in altre regioni del mondo, dipende moltissimo dalla qualità e dalla durata dell?impegno americano: non solo l?acqua e i viveri del Programma Alimentare Mondiale, dunque, ma strutture produttive, attrezzature per la modernizzazione dell?agricoltura, miglioramento del sistema sanitario, processi di alfabetizzazione e democraticizzazione, senza che tutto questo provochi fenomeni di rigetto culturale e religioso. Ecco le risposte e le soluzioni che l?Amministrazione Bush deve dare all?opinione pubblica mondiale e al popolo iracheno nell?assolvimento di quel difficile compito che la storia che ha assegnato all?America. E l?opinione pubblica americana, i conti pubblici, una congiuntura economica ancora stentata, i dossier deviati, quanto contribuiranno alla soluzione di questa difficile fase storica? Non è facile stabilirlo, ma a rigor di logica si direbbe poco. Ad ogni modo è il terzo interrogativo posto dalla questione irachena, forse il più importante.
Riflessioni sulle presunte armi di distruzione di massa