L’ultima newsletter di Amedeo Piva, “Chiedo scusa a suor Novella”, ha suscitato numerosi commenti sul tema della (apparente?) dicotomia tra scuola statale e scuola privata. Una domanda di fondo attraversa tutti gli interventi: svolgono davvero entrambe un servizio di interesse “pubblico”?
Vale la pena allora, una volta in più, rileggere con attenzione le parole pronunciate a Roma da Piero Calamandrei nel 1950, in occasione del III Congresso in difesa della Scuola Nazionale.
Da allora sono trascorsi più di sessant’anni, ma il suo allarme sul rischio di indebolire le scuole pubbliche per poter governare il Paese “a piacere”, in spregio della democrazia e della libertà individuale, resta valido e attualissimo. Meno condivisibile la modalità con cui queste parole sono state utilizzate durante la manifestazione dello scorso 12 marzo, agitate come una clava contro la scuola “privata”.
Difendere la scuola pubblica non significa demonizzare le scuole non statali.
Una buona parte di queste realtà sarebbe infatti ben contenta di non contrapporsi, ma di stringere un’alleanza con le scuole statali per difendere il sacrosanto diritto di tutti a una buona istruzione.
Perché è una ricchezza per il Paese potersi giovare di scuole che, rispettando regole, programmi sotto la vigilanza dello Stato, possano operare in base a una propria specifica originalità educativa.
E sarebbe un bene se queste scuole, con le stesse regole, fossero gestite magari anche da personale islamico. Non per creare ghetti, ma perché idealità, culture, costumi diversi possono integrarsi solo in un contesto “polifonico”, non soggetto alla minaccia continua di omologazione forzata.
Si tratta a questo punto di parlare di soldi. Qualsiasi sostegno alle scuole non statali non può essere sottratto alle magrissime risorse a disposizione delle scuole Stato.
Anche questo è un capitolo serio, che merita ulteriori approfondimenti.