Difficile riuscire a pensare ad altro. Ogni telegiornale, giornale, telefonata, schermata di facebook, ci parla di Covid, la curva dei contagi ci fa compagnia mentre mangiamo, teniamo d’occhio l’età media dei ricoverati per decidere quanto siamo a rischio: ci ritroviamo insomma Covid-dipendenti anche senza volerlo. “Eppure –ci ricorda QUI Camillo Ripamonti del Centro Astalli– è importante che la pandemia non monopolizzi tutto, pensieri, azioni, progettualità. Il rischio più grande dell’emergenza che stiamo vivendo è che il virus si erga a sovrano assoluto della nostra vita: “quando l’immediato ci divora, lo spirito va alla deriva” (Edgar Morin). 

Inutile rammentare che la preoccupazione per il rischio di contagio e i suoi possibili esiti è purtroppo ben fondata nei numeri e nella realtà, non mancano ragioni oggettive per essere preoccupati; vale invece la pena di rammentare le ragioni -altrettanto oggettive- per sperare e affrontare la situazione, comunque evolva, con un atteggiamento positivo.

Sperare in uno sviluppo non catastrofico non è immotivato. Benché nell’ansia tendiamo, un po’ scaramanticamente, a sovradimensionare la nostra fragilità sappiamo oggi di questo virus molto di più di quanto non ne sapessimo all’inizio della pandemia; le cure utilizzate e la loro efficacia è migliorata rispetto alla fase sperimentale; il vaccino -pur nelle difficoltà della ricerca e dei tempi- prima o poi arriverà. Non abbiamo certezze assolute, ma relative si. Per sperare non siamo costretti ad affidarci per forza agli scongiuri, alla buona stella o ai miracoli: siamo autorizzati a farlo anche alla fine di un ragionamento. No, non è poco.

Sperare è necessario per continuare a vivere, ad avere relazioni, a crescere i figli, a non essere ossessionati dalla paura e dall’ansia malgrado la cassa integrazione, l’attività sospesa, il reddito dimezzato o peggio. E’ tanto più necessario perché la situazione grava in modo -profondamente e inevitabilmente- disuguale sulle persone e sulle famiglie; la speranza è il “luogo” in cui possiamo (e dobbiamo) inventare meccanismi che rendano meno pesante la disuguaglianza del peso economico della pandemia tra chi ha comunque un’entrata garantita e chi no.

Sperare è utile per evitare di cedere alla tentazione di chiudere le porte e coltivare il nostro disagio nutrendolo di amarezza e telegiornali, alimentando fantasie di complotti e sfortune o -peggio ancora- trasformandolo in sordo rancore compulsivamente a caccia di colpevoli veri o presunti.

Sperare non ha alternative intelligenti. Disperare non migliora la vita di nessuno, può solo spingerci verso un triste fatalismo o una catatonica passività. Giova forse -a chi fosse incline alla tentazione di ibernarsi mentalmente in attesa che tutto sia finito- ricordare che questi mesi/anni di pandemia non saranno recuperati alla fine dei tempi regolamentari; questa è la vita che abbiamo e questo il tempo in cui viverla, che piova o ci sia il sole, che si faccia festa o guerra, che ci tocchi il boom economico o la recessione, la salute o la malattia. Questo è.

C’è un Covid “fisico”, la malattia di cui parlano i telegiornali, che può contagiarci o no; possiamo prendere le necessarie precauzioni, ma non possiamo evitarlo con certezza.

C’è poi un Covid “mentale”, generato dalla paura di quello fisico, che non è meno grave del primo; i sintomi sono ansia, confusione e demotivazione, ma di questa seconda forma decidiamo noi se e quanto ammalarci, non esistono farmaci da assumere o tamponi da fare, solo atteggiamenti da scegliere, limiti da imporci, speranza da coltivare.

Il luogo dove ci si ammala siamo noi, non corriamo più del virus.