Oggi che parliamo tutti di rifugiati e di corridoi umanitari. E di numeri, flussi da bloccare, vite da contenere, respingere, lasciare annullare. Guardiamoli negli occhi, questi figli di una umanità dispersa.
Perché magari – e non lo sapremo mai se non ci metteremo in ascolto – uno di loro è proprio la giovane mamma che ti siede accanto nel bus. O – come nel caso di Hilal – è il talentuoso artefice della bavarese che ti arride invitante dalla vetrina di una pasticceria romana. La sua storia è al centro di un bell’articolo di Flavia Amabile sulla Stampa (QUI).
Quella di un giovane strappato all’età di dodici anni alla famiglia e ai suoi sogni, per combattere una incomprensibile guerra di adulti e diventare un kamikaze, un martire addirittura. È successo in Afghanistan, ma Hilal grazie a Dio non ha trovato la morte condannato da una cintura esplosiva. È riuscito a fuggire e oggi, dopo tante peripezie, vive nella casa famiglia “L’Approdo” nella Capitale, ha un impiego e un contratto a tempo indeterminato e sogna di diventare uno chef pasticciere stellato.
«Abbiamo lavorato per ricucire le sue ferite – ha raccontato Luigi Vittorio Berliri, fondatore della cooperativa Spes contra spem che gestisce l’attività, perché – oltre alle bruciature esterne c’erano quelle interne su cui dovevamo intervenire: gli abbiamo fatto capire che il mondo degli adulti non è solo quello che ti fa indossare una cintura da kamikaze».
Senza la speranza di una alternativa oggi Hilal sarebbe forse cenere. Questo dobbiamo tenere a mente quando – per pura vigliaccheria – siamo portati a considerare i rifugiati, persone che sfuggono alla violenza, alla morte (non faremmo anche noi lo stesso?), come numeri da gestire.