Riparte Praxis.
Nuova serie di incontri per la
nostra scuola di politica e territorio.
Gli affreschi dell’Oratorio
del Caravita sono lo sfondo per discutere con il Ministro delle
Comunicazioni, Paolo Gentiloni di media, mercato e servizio pubblico.
Nel freddo anomalo che attanaglia la Capitale, l’incontro scivola denso
di tematiche, puntellato dalle domande dei tanti intervenuti.
La
potenza devastante del modello televisivo che manipola e distorce il
quotidiano attraverso la filigrana delle immagini; il rapporto tra tv e
potere è anche la collusione tra media e interessi politici. E ancora,
il ruolo pedagogico della televisione palese quanto subdolo, custodito
entro un sistema informativo ignorante, poco avvezzo alla carta
stampata e al confronto tra posizioni differenti. Quindi sempre più
settario. L?obiettivo primario è “il pluralismo, per dare la
possibilità a più voci di raccontare il quotidiano”, senza se e senza
ma. La discussione si snoda sul dualismo dell?uomo politico che è
anche padre: preoccupato del modello che la televisione diffonde, ma
impegnato nel dipanare un sistema di regole che apra la produzione di
prodotti di comunicazione a più editori.
Gentiloni è pacato ma fermo
nell’illustrare e difendere la sua proposta di riforma (che giace da
più di un anno in parlamento) e il baluardo della televisione pubblica
come ?pietra? di paragone e freno alla deriva commerciale. “Senza la
Rai la tv commerciale prenderebbe il sopravvento – dice Gentiloni. E?
vero che la Rai si è avvicinata alla tv commerciale ma è altrettanto
vero che quest’ultima non può discostarsi troppo da quella pubblica”.
Insomma, una marcatura ad uomo che tiene a galla la nostra televisione.
“Eppure un equilibrio è possibile” e la riforma propone alcuni
parametri spesso già adottati all’estero con buoni risultati, come il
tetto percentuale sugli spot pubblicitari.
Il tono è accorato quando
si racconta che “nulla è più reale (o percepito come tale) se non
appare in tv” e diviene oltremodo serio quando si arriva a snocciolare
cifre.
“Siamo quelli che al mondo guardano più tv, in media ogni
italiano ne assume quasi cinque ore al giorno”. E poi la gente con i
numeri e gli umori di una televisione che non piace: prodotto
esclusivamente sulle esigenze del mercato. La percezione è quella di
una Rai che smetta i panni di servizio pubblico e s’inerpichi nella
rincorsa alla Mediset, su un terreno che non le è congeniale: quello
del fatuo, dell’intrattenimento povero di contenuti. Tornare a fare
ricerca (lo stesso Ministro cita il caso di Che tempo che fa, vicino
alla chiusura dopo primi risultati poco incoraggianti in termini di
audience) è un?alternativa alla vendita sine qua non della tv pubblica
o allo spegnimento incondizionato.
La ricerca è qualità, non
appiattimento. Pluralità e non mercato. La nostra televisione è invasa
(anche nei bilanci) dal peso economico della pubblicità che vale oltre
la metà delle disponibilità economiche di una rete. In un meccanismo
economico siffatto non c?è spazio per la ricerca, per la contaminazione
intellettuale piuttosto che per quella commerciale.
La sensazione è che
la tv generalista stia divenendo la periferia della comunicazione e che
le mille richieste della gente normale siano lontane dal meccanismo.
Troppa pubblicità, l?ormai classica accusa ai reality, pantomima della
realtà: la tv di stato galleggia senza equilibrio né rotta in questo
mare solcato da mille interessi, privilegi e possibilità, dove
convivono la necessità di fare audience e quella di ricercare qualità
nei programmi. L?antitesi di sempre.
Così ci convinciamo che non ci
siano più i due livelli che contraddistinguono la vita di una persona
che guarda la tv: spettatore (che la sera torna a casa e vuole
distrarsi con la famiglia) e consumatore (con bisogni che lo portano ad
acquistare beni di varia natura), ma che lo spettatore ormai consumi un
prodotto nell?accendere la tv.
Non siamo al collasso ma al di là delle
riforme sarebbe auspicabile una reazione collettiva. Dovrebbero reagire
gli spettatori esercitando il loro consenso critico conquistando il
diritto/dovere di spegnere ogni tanto l?aggeggio infernale, essendo
perspicaci e curiosi di informazione alternativa, pescata da più fonti
e incrociata.
Dovrebbero cambiare i criteri che orientano le scelte di
chi i contenuti per la tv li produce, esulandosi dal puro business. E
dovremmo una buona volta smetterla di pensare alla tv come una nutrice
capace di guidarci e svezzarci al mondo, di educare. E fa oltremodo
tenerezza che nell’impoverimento generale chi non ha voce abbia forza e
voglia di farsi sentire.
Sullo sfondo le ombre della traduttrice che
racconta gesticolando i vari interventi alla rappresentanza di
un’associazione di persone non udenti. La comunicazione è prima di
tutto questo, voglia di esserci per portare il proprio messaggio: mezzo
per dire più che per intrattenere.
La sfida dei prossimi anni è
rendere più umana la comunicazione: palestra di pensiero capace di non
mistificare le componenti commerciali, partendo dalle potenzialità
tecnologiche per diversificare prodotti e soggetti.