Oggi l?Italia, e in particolare Roma, si potrebbero rappresentare come un quadro variopinto, pieno di colori e forme differenti. Questo perchè nel corso degli ultimi trenta anni il nostro paese, da terra di emigrazione, da cui cioè si andava via per cercare di migliorare le proprie condizioni di vita all?estero, è divenuto terra di immigrazione: questo vuol dire che gli stranieri che arrivano in Italia per viverci stabilmente sono di più di quelli che vanno via.

Un periodo di trent?anni, in un fenomeno sociologico come questo, è troppo breve perché cambi la mentalità di un paese, con una consolidata e indiscussa identità cattolica, che si trova a vivere sorprendentemente la novità della presenza stabile di culture e religioni diverse. A tal punto che la religione islamica rappresenta ormai saldamente la seconda religione in Italia.

(I musulmani che risiedono in Italia siano circa 800mila, molti dei quali stranieri, ma anche italiani convertiti. Si tratta, grosso modo, del 2% della popolazione del nostro paese. Il 32,2 per cento dei bambini e ragazzi extracomunitari che frequentano le scuole italiane sono di religione musulmana).

È indispensabile per vivere appieno il nostro presente e il nostro futuro, da un lato conoscere più e meglio le ?altre? religioni, cercando di evitare i ricorrenti pregiudizi e i facili pressappochismi; e dall’altro, educarci pazientemente al confronto e al dialogo interreligioso.

Non è facile, certo, aprirci con sincerità alle altre religioni: occorre innanzitutto un cambiamento di mentalità, un’apertura alle ragioni degli altri, una conoscenza diretta derivante non solo da una più capillare informazione e documentazione, ma anche dall’incontro nella quotidianità, nello scambio interpersonale, nel racconto vicendevole delle rispettive esperienze di fede.

Occorre tempo, coraggio e disponibilità: normalmente la diversità, a maggior ragione quella religiosa, ci fa paura, ci crea un evidente disagio, perché percepita come un’oscura minaccia alla nostra identità e spesso non possediamo gli strumenti per rielaborarla positivamente in vista di quella che un vescovo pugliese, don Tonino Bello, chiamava felicemente la “convivialità delle differenze”.

Oggi quando si parla della presenza in Italia di persone straniere e di religione diversa si usano (o meglio si abusano) alcuni termini che vi risulteranno sicuramente familiari e su cui è importante secondo me porre l?accento.

Ad esempio Dialogo è una di quelle parole comuni che pronunciamo di solito senza farci particolari problemi. Senza comprendere fino in fondo la complessità che vi sta dietro. Molto spesso, senza distinguerla da altre parole altrettanto comuni e all?apparenza innocue, come ad esempio tolleranza: anche se, con un po? di attenzione, risulta evidente che c?è una notevole differenza tra il tollerare qualcuno, accettando semplicemente che esista, con le sue inevitabili differenze e il vivere un?esperienza di dialogo con lui.

Sull?espressione dialogo interreligioso attualmente si discute molto, o meglio, si tratta di un termine a cui si ricorre di frequente, quasi come un talismano multiuso con cui si dovrebbe risolvere ogni problema, da una parte, o come un tabù da demonizzare, dall?altra. Verrebbe da dire che è una parola da usare sì, ma con la dovuta cautela, sia per evitarne un utilizzo puramente retorico, sia per non impoverirla ripetendola di continuo, a vanvera.

Di fatto oggi la tolleranza non basta e non serve a costruire una società interculturale.

Questo ce lo insegnano le disastrose esperienze di assimilazione degli immigrati fatte in Olanda prima e in Francia più di recente con gli effetti che tutti conosciamo.

Per non ripetere gli errori già visti è necessario porsi in dialogo con gli immigrati che vivono a Roma, per costruire insieme un modello di società nuovo ed originale che fondi le proprie radici su un prezioso patrimonio composto da culture differenti da cui partire per creare un nuovo modello democratico.

Un documento di qualche anno fa del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, intitolato ?Dialogo e annuncio” diceva che il dialogo richiede un atteggiamento equilibrato sia da parte dei cristiani sia da parte dei fedeli di altre religioni. Non si dovrebbe essere né troppo ingenui né ipercritici, bensì aperti e accoglienti.

Fra le disposizioni richieste per un dialogo corretto e fruttuoso si ricordavano nel documento l’accettazione delle differenze e delle eventuali contraddizioni, la volontà di impegnarsi insieme al servizio della verità e la prontezza a lasciarsi trasformare dall’incontro. Ciò non significa che, nell’entrare in dialogo, si debbano mettere da parte le proprie convinzioni religiose.

Anzi è vero il contrario: la sincerità del dialogo interreligioso esige che vi si entri con l’integrità della propria fede.

L?incontro con persone di religione diversa dunque, permette di comprendere chi siamo, e ci rammenta continuamente come la verità – persino la verità religiosa – rappresenti un cammino da fare più che un possesso assoluto e definitivo.

Perciò, credo che in una società caratterizzata dalla globalizzazione e dall’interdipendenza il dialogo interreligioso sia uno dei temi strategici del nostro vivere insieme, e sia destinato a divenire un autentico “banco di prova” per ciascuno di noi.

Questo incontro alla Moschea rappresenta per noi quindi solo l?inizio di un cammino da fare insieme ai musulmani che vivono a Roma per costruire insieme una città aperta alle differenze, capace di far convivere insieme diverse espressioni culturali e religiose e soprattutto attenta alle istanze sociali di tutti.

In un momento in cui la legge sull?immigrazione chiude le frontiere illudendosi così di allontanare lo spettro del terrorismo internazionale, la sfida che ci poniamo è quella di accogliere e integrare tutte le persone che vogliono contribuire con il loro lavoro, con la propria cultura e con la propria fede alla crescita di una città che sentono la ?loro città?. Se si riuscirà a vincere questa sfida Roma diventerà più ricca, più sicura e una città a misura di tutti.