Di
Fabrizio TORELLA
Nel 73 a.C. il gladiatore Spartacus scappava dall?anfiteatro di Capua, alla testa di una settantina di
evasi, tutti gladiatori come lui, per dirigersi verso le pendici del Vesuvio dopo un primo scontro
vincente con una guarnigione romana: era questa la prima di una lunga serie di vittorie incredibili
contro il potente esercito di Roma, ad opera di quello che da manipolo di disertori fuggitivi via via
divenne un vero e proprio esercito di diseredati, contadini, schiavi, mandriani, disertori, plebei,
provenienti da varie regioni italiche del Sud e da varie regioni del nascente Impero, tutti uniti da un
odio profondo verso Roma e dalla speranza di riscatto dalla propria condizione di subalternità senza
scampo. Prima di diventare gladiatore Spartacus era stato soldato romano, fin quando stanco della
ferrea disciplina dell?esercito e degli episodi di razzismo che dovette subire, lui nativo della Tracia,
disertò.
Questo gesto, inammissibile per la giustizia militare romana, gli costò la riduzione in schiavitù una
volta catturato. E come schiavo fu venduto a Lentulo Battiato che gestiva senza troppa umanità una
scuola di gladiatori a Capua, da cui Spartacus decise appunto di evadere. Sfruttando l?inerzia e
l?indolenza di Roma per una superficiale sottovalutazione della rivolta, Spartacus per due anni col
suo manipolo sempre più numeroso e agguerrito si scontrò e vinse contro l?esercito romano, fino
ad alimentare in alcuni dei suoi il delirio di onnipotenza, l?idea di poter marciare su Roma. Ma il
sogno si infranse, quando Roma prese sul serio la rivolta e inviò contro i ribelli le legioni guidate
da Crasso, che sul fiume Sele annientò la sommossa (vi morirono 60.000 schiavi a fronte di non
più di 1000 legionari). Di Spartacus, morto e fatto a pezzi in battaglia, restò il mito. Il mito di
colui, che, come Davide contro Golia, ha avuto il coraggio di ribellarsi al sopruso e alla violenza del
più forte, pagando con la vita la voglia di libertà.
I recenti fatti di Rosarno mi hanno immediatamente fatto tornare alla mente il parallelismo con la
rivolta di Spartacus. Stesso scenario: l?Italia del Sud. Stesso stato sociale: la schiavitù. Stesse
motivazioni: la violenza come unico modo urlato per affermare il proprio diritto di esistere. Stesse
modalità nel crescendo degli eventi: l?inerzia dello Stato, la mancanza di adeguate contromisure,
l?incapacità di prendere provvedimenti. Quindi la repressione con l?invio delle ruspe e di un numero
ora sì adeguato di forze dell?ordine ? come i nuovi legionari di Crasso – finalmente presenti ed
efficienti dopo tanta latitanza, atto disperato di uno Non-Stato, che, abbattendo le mura del lager e
deportando gli abitanti-schiavi, pensa di accreditarsi all?opinione pubblica come soggetto garante
delle regole ed rendere visibile la sua presenza.
Dopo la colpevole assenza -altra affinità- il pugno duro: come Crasso che da Capua a Roma fece
crocifiggere sulla via Appia i 6.000 prigionieri rimasti dell?esercito di Spartacus.
Ma le tante affinità tra Rosarno e Spartacus non devono trarre in inganno. Né bisogna indulgere al
romanticismo, né al buonismo. La rivolta di Rosarno si muove all?interno di un?illegalità diffusa. E?
lo scontro tra lavoratori del più profondo sommerso, quasi tutti irregolari, contro una criminalità
che affama, padrona assoluta del territorio e del mercato del lavoro. E? uno scontro tutto interno
all?irregolarità, in cui la nostra simpatia , va ovviamente ai soggetti più deboli in campo, che
fuorilegge lo sono per una legge che li vuole fuori e per altre per mille ragioni, indipendenti dalla
volontà dei singoli. Né dobbiamo rivestire la rivolta di contorni ideologici. Non saprei quanta
coscienza dei propri diritti ci sia dietro questa rivolta di piazza. Quanto invece essa sia istintiva,
brutale in quanto non razionalmente condotta a favore di concreti e consapevoli obiettivi legati
all?acquisizione di chiari diritti di cittadinanza. Come invece furono le lotte contadine che hanno
caratterizzato il Sud nel dopoguerra. E in mente ritornano le stragi mafiose contro i braccianti
agricoli, l?occupazione delle terre, la lotta al latifondo, Di Vittorio. Ma lì c?era un programma di
crescita sociale, di emersione di diritti, la chiara ricerca di uno status di cittadino-lavoratore che
cercava, anche con la forza, di emanciparsi da servo della gleba. A Rosarno non credo. Troppo forte
è la condizione di subalternità dei nuovi schiavi-braccianti, non c?è ideologia, ma solo disperazione:
loro in fondo chiedono solo rispetto, acqua, luce, bagni, una condizione di vita elementare, appena
superiore ai luoghi dell? Africa che hanno lasciato.
Il contesto socioeconomico in cui muove tutta questa vicenda ha radici antiche, aggrovigliate, di
impossibile dipanatura se non pensando al lungo, lunghissimo periodo, a scenari politici nuovi, al
momento impensabili. Non voglio in questo contesto dare giudizi per non scadere in un ripetersi di
ovvietà e luoghi comuni, né per una volta voglio aiutare il mio ragionamento con i dati. Ce ne
sarebbero troppi e troppo ovvi a delineare lo stato di abbandono del nostro povero Sud, che
galleggia tra illegalità, sommerso, indici di disoccupazione giovanile fuori controllo, tasso di
povertà delle famiglie tra i più elevati d?Europa, tassi di sconto e accesso al credito sfavorevoli
rispetto al resto d?Italia, evasione scolastica e analfabetismo tra i più alti, eccetera eccetera, che non
farebbero altro che delineare l?ovvietà appunto: una quotidianità disperata, senza prospettive, senza
progettualità, senza futuro, che accomuna gli italiani residenti agli immigrati.
Voglio solo porre tre domande (retoriche) precise per restare al caso Rosarno:
1 ? dov?erano le istituzioni tutte (comprese magistratura, forze dell?ordine, regione e gli enti locali,
sindacati, Asl, associazioni, Chiesa) quando 2000 persone dormivano in un capannone
abbandonato senza acqua, luce, servizi igienici? Dov?era il Commissario prefettizio di Rosarno,
paese la cui giunta è stata sciolta per infiltrazioni criminali? Troppo facile è ? per tutti costoro – la
denuncia ?a posteriori?.
2 ? dov?è lo Stato italiano quando eserciti di braccianti assunti senza regole lavorano nei campi
sotto gli occhi di tutti a raccogliere pomodori e arance in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia?
Eppure questo esercito di schiavi, come quello di Spartacus, da anni si sposta periodicamente da
una parte all?altra del Sud. Una transumanza di esseri umani che tutti conoscono, che ogni anno
riempie le pagine dei giornali: non sono 10 o 100 persone, sono migliaia.
3 ? Lo sa il nostro Ministro dell?Agricoltura che le arance vengono acquistate alla produzione a
7 centesimi al chilo, per poi essere rivendute sui banchi dei nostri mercati a 1 euro e 50? Qualcosa
allora non va nella nostra catena di distribuzione che affama chi produce. Anche questo provoca
schiavismo e lavoro nero.
Potrebbero seguire altre 1000 domande che resterebbero tutte senza risposta.
Resta il fatto, la realtà col suo carico di squallore e di abbandono. La sofferenza di una terra, il Sud,
che tanto ha dato alla cultura universale, all?integrazione tra popoli, ora lasciata sola,
colpevolmente, dallo Stato in una deriva dagli esiti imprevedibili.
Se il focolaio diventasse incendio non solo il Sud, non solo l?Italia rischierebbe di bruciarsi. La
rivolta delle banlieues di Parigi sono l?evento più prossimo e più simile. Il problema
dell?integrazione, dei diritti umani e della coesione sociale è un problema che riguarda tutti e tutte le
nazioni industrializzate: deve essere una delle priorità della politica di questo nascente 2010 e va
posto e affrontato a livello Europeo. Altro che processo breve!