Giancarlo, psichiatra, parla di trauma post migratorio. Per Fabiana, operatrice legale, si tratta di vulnerabilità sopraggiunta. Comunque lo si chiami è un dolore subdolo, inaspettato e per questo violento e troppo spesso ingestibile.
È il male che colpisce richiedenti asilo e rifugiati nel loro iter per il riconoscimento dello status. La superficialità, l’ignoranza, l’ignavia di un sistema che non riconosce la dignità delle persone, ma calpesta diritti e speranze senza neanche immaginarne le conseguenze.
Kamara (nome di fantasia) arriva in Italia dalla Sierra Leone il 5 ottobre 2008.
Si rivolge al Centro Astalli per avviare la sua richiesta d’asilo. L’esame in commissione avviene un anno dopo aver presentato la domanda. Il 27 ottobre del 2009 gli viene notificato un diniego.
Tramite un avvocato presenta ricorso in tribunale. Il 5 marzo 2012, dopo oltre tre anni dall’arrivo, viene a sapere con una sentenza che il giudice rigetta l’istanza. Non ha più diritto a rimanere in Italia.
Negli ultimi 4 anni della sua vita, Kamara ha provato ad andare avanti indipendentemente dai tempi della burocrazia italiana, ha trovato un lavoro, una casa, si è rimesso in piedi e ha ricominciato a vivere. Dopo tutto ciò, qualche settimana fa, per la seconda volta nella sua vita, gli viene comunicato che avrebbe dovuto lasciare tutto e ritornare da dove era scappato tanto tempo prima.
Kamara decide che tutto ciò non fa più per lui: prova a togliersi la vita.
Adama (nome di fantasia) è un ragazzo di 20 anni, scappato dalla Costa d’Avorio. Trema e piange: non fa altro da quando si trova in Italia.
Presenta domanda d’asilo e racconta di una madre abusata davanti ai suoi occhi da un gruppo di militari.
È costretto a raccontare l’orrore in questura, lo deve ripetere all’operatore legale da cui è seguito, lo avrebbe dovuto ridire in commissione lo scorso 5 aprile, ma non ce l’ha fatta. L’idea di dover rivivere nuovamente quel maledetto orrore, l’ha quasi ucciso. Un crollo nervoso lo costringe al ricovero in ospedale, dove continua a tremare. Immaginare un futuro per questo ragazzo è difficile. L’unica cosa che l’Italia per il momento è riuscita a fare è fissare una nuova data: il 16 maggio verrà nuovamente chiamato a parlare di quel dolore troppo grande… Tutto il resto non conta e non serve.
Paul dalla Costa d’Avorio, racconta di Malta: “Ho diviso per alcuni giorni la stanza nel centro di detenzione con un ragazzo che accusava dolori fortissimi alla testa. Tutti i giorni andavo dalle guardie a dire che il mio compagno aveva dolori al capo. Nessuno ha fatto niente. Nessuno è venuto a vedere le sue condizioni, non ha avuto modo di parlare con un medico né con chiunque altro. C’ero solo io a far fronte alla sua disperazione. Dopo tre giorni il mio compagno è morto.
Per le diciotto notti successive il suo volto mi è apparso davanti chiedendomi aiuto. Per me è stata una vera tortura, la peggiore che abbia mai subito, talmente atroce che le persecuzioni nel mio paese sono passate in secondo piano”.
Il dolore dei rifugiati non è solo quello che li costringe a scappare. Esiste un dolore subdolo che fiacca lentamente, che logora giorno dopo giorno. Attese, rinvii, mancanza di ascolto, solitudine e disprezzo di una dignità già troppo calpestata. Troppo spesso c’è solo questo ad aspettarli nel Paese in cui chiedono asilo.