Egitto, 1080 avanti Cristo, regno di Ramses III. La crisi è evidente: il paese soffre di una gravissima situazione economica che porta all’inflazione,  tra gli operai della necropoli tebana si verificano continui scioperi di protesta per le paghe non corrisposte; bande di ladroni depredano le ricche tombe dei faraoni nella Valle dei Re e i popoli del mare che arrivano da Cipro e da Creta minacciano le città della costa.

Amenothep è esasperato e non può fare a meno di chiedersi: quando finirà questa crisi?  quando l’economia del paese ricomincerà a funzionare come in passato? bisognerà aspettare un altro governo? un nuovo faraone? “Ce l’abbiamo sempre fatta, sono oltre duemila anni che gli egiziani dominano la valle del Nilo, La Nubia, la Libia e le terre ad oriente del mar Rosso… non finirà certo per  uno sciopero, l’inflazione della moneta e qualche aggressione di predoni!”.

Ma la crisi non passò e la civiltà egiziana dopo oltre duemila anni finì così -senza eccessivo clamore- fra uno sciopero, un’inflazione , un governo debole e battibecchi fra notabili, sfarinandosi nel giro di qualche anno.

Eppure le riflessioni di Amenothep apparivano ragionevoli. Ricordando, qualche anno dopo, quell’inverno del 1080 a.C. si diceva: “Non si è trattato certo di una paura da ‘prima volta’. Di crisi negli ultimi decenni ne abbiamo attraversate a ripetizione. È forse questa continua iterazione che spiega perché, di fronte alle drammatiche vicende dell’ultimo anno, la nostra società abbia avuto l’automatica tentazione di derubricarle, ritenendole una ulteriore riproposizione di dinamiche precedenti e immaginando quindi che anche stavolta si potessero riutilizzare gli aggiustamenti sperimentati in passato. Pensavamo quindi, sotto sotto, di essere indenni e immuni da giorni cattivi. E invece ci siamo ritrovati inermi, in una immunodeficienza tanto inattesa quanto pericolosa.” (46° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, CENSIS, Roma, 7 dicembre 2012)

La crisi non finisce come finisce l’inverno, né passa come passa un mal di gola. 

Non è che un bel giorno qualcuno ci informa: “Signore e signori, la crisi è finita” e -oplà- tutto ritorna come prima.

Le  crisi profonde non “passano”, marcano il passaggio da una situazione ad un’altra, cambiano i posizionamenti e gli stili di vita, instaurano un diverso accesso ai beni e ai servizi, modificano l’uso del tempo e la distribuzione del lavoro, insomma la vita delle persone.

Un recente rapporto promosso dal McKinsey Global Institute ci informa che tra meno di 15 anni nessuna città italiana figurerà più tra quelle ritenute maggiormente significative nel mondo per capacità di produrre reddito e per qualità di vita offerta ai suoi abitanti (http://www.amiciperlacitta.it/articolo.cfm?id=1694).

Ovviamente questo processo non si compirà di colpo in una mattina di primavera, è in pieno e tumultuoso svolgimento, e quella che noi chiamiamo “crisi”, come se fosse malessere passeggero, non è altro che il suo progressivo e inarrestabile realizzarsi.

Alla domanda se tutto questo comporterà che nei prossimi anni e decenni saremo più poveri, avremo meno accesso a beni e servizi, ci sarà meno lavoro e dovremo accontentarci di bassi stipendi e magre pensioni la risposta è assolutamente e inappellabilmente “Si”.

Non è un dubbio o una eventualità, è una certezza assoluta. Ma questo non vuol dire che ci resta solo da tentare il suicidio di massa. Quello che ragionevolmente possiamo e dobbiamo fare è capire il processo in corso e cavalcarlo senza subirlo passivamente, dismettendo lo sciocco atteggiamento dei nobili decaduti che riescono a parlare solo degli splendori passati invecchiando tristemente tra un rancore e una tisana.

Non tutto è negativo (e comunque, anche se lo fosse, non è lamentandoci che lo cambieremo). Il Rapporto CENSIS di pochi giorni fa registra che in questo sobbollire di pulsioni negative, i tempi cattivi avrebbero potuto diventare pessimi, nella drammatica attesa di tracolli da qualcuno preconizzati come inevitabili. Invece nel sottofondo della dinamica sociale ha cominciato a vedersi una sua autonoma tensione alla solidità, confermando l’antica verità che le crisi, forse proprio nel sobbollire di pulsioni negative, inducono a percorsi di complessa maturazione del corpo sociale, di “iniziazione” direbbero i non razionali e i non dotti.

Abbiamo visto milioni di persone sopravvivere da sole alla crisi, con un’intima tensione a cambiare (ad “essere altrimenti”) e con differenziati riposizionamenti di competizione e di coesione.”

Le crisi ci sono sempre state, in tutti i periodi, solo che quando si sviluppavano fuori dall’Europa le consideravamo poco più che avversità meteorologiche alla periferia dell’impero. Quando le economie asiatiche non riuscivano decollare negli anni sessanta o quelle africane andavano a picco negli anni novanta, in entrambi i casi con conseguenze drammatiche per milioni di  persone, non parlavamo di crisi epocale e planetaria:  la crisi è solo una questione di “dove” e di “quando”.

L’attuale crisi europea vista dalla Cina o dall’India appare come una semplice ridistribuzione del lavoro e dei profitti a netto vantaggio dell’area asiatica, conseguenza di una migliore economia e di una potenzialità demografica e produttiva con la quale l’Europa non può neppure sognare di competere.

Non siamo vittime di un complotto. La nostra tendenza a universalizzare ciò che ci accade come se fossimo il centro dell’universo è una distorsione difficile da guarire, eppure è proprio dal superamento di questo provincialismo che dipende il nostro riuscire a vedere il futuro in modo nuovo.

Come sarà il futuro dopo la crisi? Certamente molto diverso dal passato. Certamente meno facile.

Ma non è la fine della nostra civiltà (anche se la fine delle civiltà fa parte della fisiologia della storia: chiedetelo agli egiziani, agli assiri, ai maya, ai persiani, ai romani…) è solo una nuova storia e una nuova sfida.

Può darsi che i nostri figli debbano spostarsi a Shangai o a Bangalore se vorranno avere un buon lavoro, così come i loro bisnonni partivano per New York e come i Filippini partivano per Roma… o forse sceglieranno di restare in Europa e lavorare in economie di nicchia, l’importante è che abbiano gli strumenti per capire cosa sta succedendo in questo mondo e la capacità di decidere cosa fare.

Non è la crisi che deve “passare”, siamo noi che dobbiamo cambiare occhi, orizzonti e prospettive.