Si chiamava Abdoullah Abuyezidvich Anzorov il ragazzo diciottenne di origini cecene che a Parigi ha decapitato Samuel Paty, un professore di storia alle scuole medie, il quale -nei giorni precedenti- aveva mostrato agli studenti durante una lezione le vignette su Maometto pubblicate da Charlie Hebdo nel 2015. La lezione del professore aveva suscitato le proteste dei genitori di alcuni studenti, tra cui il padre di un’alunna che aveva contestato Paty “per diffusione di immagini pornografiche“.
Abdoullah è stato poi ucciso dagli agenti di polizia intervenuti per fermarlo, contro i quali aveva fatto fuoco. Prima di morire ha fatto in tempo a postare sul suo profilo Twitter le immagini dell’insegnante decapitato e un messaggio di rivendicazione: “Allah, ho ucciso un cane dell’Inferno che ha osato infangare il tuo nome”.
Saremmo inorriditi anche se gli avesse sparato, ma la crudezza -simbolica e cruenta- della decapitazione ci strappa un urlo interiore che sembra inibire qualunque ulteriore riflessione e definizione della tragedia. E invece un passo ulteriore è necessario.
Quale convinzione religiosa è maturata nella testa di un ragazzo di diciotto anni per arrivare a interpretare questo suo orribile gesto come un’eroica prova di fede e fedeltà? Il suo tweet rivolto ad Allah come a dirgli: vedi quanto è forte la mia fede? vedi come ho vendicato le offese al tuo nome? rivela una relazione con il trascendente brutale, primitiva, priva di qualunque interpretazione, fatta di verità assolute, di differenze inaccettate, di violenza senza limite giustificata da certezze senza limiti.
E questo dramma purtroppo non si verifica e non si è verificato solo ai credenti di una religione (mi e vi risparmio gli innumerevoli esempi di roghi, stragi, guerre, ricercate blasfemie e omicidi commessi come fossero prove di coerenza e fedeltà relativi ad altre religioni), si è verificato e si verifica quando il rapporto con il sacro e le convinzioni religiose che ne derivano escono dalla sfera della propria fede e diventano verità oggettive da imporre, assoluti non negoziabili al punto da poter (o dover) obbligare anche chi non vi aderisce.
Non c’è limite alla “certezza soggettiva” della propria fede religiosa, ma “essere disposti a morire per la proprie convinzioni religiose” non è la stessa cosa di “essere disposti ad uccidere per quelle stesse convinzioni”: questo il confine invalicabile.
Poche cose sono intime e profonde quanto le proprie convinzioni religiose, sono convinzioni che -per il loro stesso contenuto- trascendono lo stesso soggetto che le professa e toccano quanto di più decisivo una persona possa avere: il suo modo di interpretare la vita e di dare valore agli eventi.
Le convinzioni religiose (tutte), così come anche la loro assenza, sono materia delicata, da “maneggiare con cura” e con rispetto: non si prestano ad essere urlate o twittate, ridotte a slogan o usate come corazze; hanno bisogno di un linguaggio attento e interpretato, si intrecciano con la cultura di chi le professa o le nega, toccano corde profonde anche quando non ce ne rendiamo conto. Le convinzioni religiose sono materia delicata: trattate come merce da vendere o trionfi da ostentare cambiano natura e diventano armi pericolose.