I fatti. Il 6 dicembre del 2007 a Torino persero la vita sette operai, arsi in un incendio scoppiato nella sede della multinazionale dell’acciaio Thyssen Krupp.
Lo scorso 16 aprile l’amministratore delegato Herald Espenhahn è stato condannato dalla Corte d’Assise di Torino con sentenza di primo grado a 16 anni e sei mesi per omicidio volontario, in quanto giudicato responsabile di gravi mancanze in relazione al livello di sicurezza nell’impianto torinese.
Appena tre settimane più tardi, durante la chiusura delle Assise generali di Confindustria a Bergamo, gli industriali hanno tributato un applauso a Espenhahn perché considerato dalla giustizia italiana “alla stregua di un assassino”, come ha affermato la presidente dell’associazione Emma Marcegaglia, che ha anche definito la condanna “un unicum in Europa” in grado di mettere a repentaglio “la sopravvivenza stessa del nostro sistema industriale”, rischiando di allontanare gli investimenti esteri dal Paese.
Ce ne è abbastanza per perdere la lucidità. Ma è proprio in questi casi che maggiormente dobbiamo invocare l’assistenza della ragione: troppo facile lasciarsi afferrare dalla “pancia”, quando di mezzo ci sono la vita dei lavoratori, lo strazio delle famiglie, l’irreparabilità del lutto.
L’applauso era certamente fuori luogo: si tratta di una manifestazione di consenso, di giubilo che stona sempre al cospetto della morte (basti pensare agli scomposti quanto irrinuciabili applausi, dopo le funzioni funebri, al passaggio del feretro).
Ma cosa hanno applaudito davvero gli industriali? La morte degli operai? È una spiegazione insostenibile, non fosse altro perché, solo in una logica imprenditoriale, totalemente suicida. Mentre sul piano umano presupporrebbe una natura bestiale, sacrilega.
Quello che invece gli imprenditori hanno -malamente- contestato, esprimendo solidarietà al manager della Thyssen, è proprio la natura della condanna, per omicidio volontario. Il che corrisponde al sostenere che il responsabile dell’incidente VOLEVA la strage.
Esiste però nel codice penale la figura dell’omicidio colposo -correlato a un’omissione, a un’imprudenza- e tanto più grave in misura della gravità dell’imprudenza stessa.
Quella della Thyssen è stata insomma una sentenza “esemplare”: condannare qualcuno, magari a piu’ di quanto sarebbe giusto, perché sia di monito agli altri. Ma a ciascuno va dato il suo, come è scritto perfino nello stemma dell’Osservatore Romano, perché sommare ingiustizia a ingiustizia non produce mai una ragione.
Da qualche tempo in Italia si sta diffondendo invece un concetto populista, viscerale, di giustizia, intesa come espressione della vendetta che il popolo sembrerebbe volere. Ma il diritto di punire spetta sempre allo Stato, non alla vittima, se non si vuole recedere alla logica babilonese dell’occhio per occhio, dente per dente.
Un diritto che deve essere esercitato nel rispetto della legge e del sacrosanto principio unicuique suum tribuere.