C’è chi è convinto che la vita sia un susseguirsi di problemi intervallati da rari momenti di serenità e chi invece la legge al rovescio: un susseguirsi di opportunità intervallate da disavventure dolorose che rallentano, ma non compromettono, la positività complessiva. Si tratta di decidere, quale delle due prospettive adottare. Non è dettaglio estetico, scegliere l’uno o l’altro approccio determina il nostro modo di porci di fronte agli eventi, stimola o deprime la nostra capacità di reazione, ci fa sentire attivi protagonisti o perenni perseguitati, insomma accende o spegne la speranza.

Si può pensare che la postura adottata dipenda da ciò che ci accade, e cioè che chi ha un’esistenza costellata di eventi negativi sia più portato alla lettura della “valle di lacrime” con illusori momenti di felicità, mentre chi ha la fortuna di godere salute e benessere propenda per la lettura positiva. Non ne sarei così sicuro. Ho conosciuto molte persone che hanno attraversato lutti e conflitti mantenendo viva una postura positiva e -conseguentemente- una forte capacità di reazione e molte altre incapaci di sopportare le contrarietà senza lamentarsi passivamente per la malasorte o ricercare compulsivamente qualcuno da incolpare.

No, non credo che dipenda da quello che ci succede, credo dipenda piuttosto dal clima culturale in cui siamo immersi, dai modelli che ci scegliamo e dalla capacità che maturiamo di valutare cosa sia pragmaticamente più efficace per superare le difficoltà. Sempre più frequentemente prevale la tentazione di denunciare difficoltà e soprusi ritenendo che con la “denuncia” si esaurisca il nostro compito e ad altri spetti poi quello di proporre e realizzare le soluzioni. Non è una buona scuola. L’atteggiamento positivo non costituisce solo la condizione per reagire e non lasciarsi andare alla disperazione, è esso stesso la strada per superare le difficoltà. 

Ovviamente non è vero che basti sperare in un esito positivo perché questo si verifichi, ma la questione non è quanto è vero, ma quanto è utile: questo è il nocciolo duro della questione. C’è un problema, lo descrivo, lo denuncio e poi? Cosa è veramente “utile” a trovare una soluzione? “Che fare?” si chiedeva pragmaticamente Berardo in Fontamara di Silone, “Che fare?” si sono chiesti gli ucraini quando hanno iniziato a bombardare le loro città,  “Che fare?” si chiede chi cerca un lavoro… “Che fare” è la domanda utile, non “Cosa dire”

Anche nei casi estremi è la postura costruttiva a fare la differenza e a trovare soluzioni inattese: «Sono preda della SLA da sedici anni, quattordici dei quali completamente paralizzato. Gli unici organi che funzionano sono il cervello e gli occhi. Proprio gli occhi mi permettono di comunicare, guardare il mondo, leggere e scrivere», così venerdì scorso al Corriere Luigi Picheca, un uomo di 67 anni che oggi fa il giornalista e guida la redazione di un giornale che lui stesso ha fondato. «Qualcuno può pensare guardandomi: “Che vita è la tua?”. Ma posso assicurarti che la vita è sempre bella perché si vivono maggiormente e con più consapevolezza le emozioni che sa dare.».

Siamo liberi di convincerci che -al di là di rari esempi edificanti- la narrazione più realistica della vita sia quella di rovesci continui con brevi pause, io preferisco quella del sereno stabile alternato a temporanei piovaschi. Non per spirituale ottimismo ma per materialissima efficacia.