L’idea di “normalità” che ci ostiniamo a perseguire non contempla che qualcuno entri in un teatro e si metta a sparare agli spettatori, prenda in ostaggio gli ospiti di un albergo o si faccia esplodere in un mercato. Ecco allora che, giustamente, siamo sconvolti e ci rifiutiamo di considerare tutto questo “normale”.
Non ci sconvolge più che migliaia di disperati affondino nel mare (ma i primi ci sconvolgevano), che bambini morti si arenino sulla spiaggia (ma i primi ci sconvolgevano), che un drone distrugga un ospedale con medici e malati e cortei di nozze vengano scambiati per pericolosi terroristi (ma prima ci sconvolgevano). Consideriamo tutto questo “normale”? No, certo, ma ci siamo abituati.
Riusciamo ad abituarci quasi a tutto: è il nostro modo di difenderci, di soffrire di meno. Se necessario, riusciamo abituarci a perdere la vista o l’uso delle gambe, a vivere con la pensione minima o al fatto che non ci sia lavoro per i nostri figli; nei paesi in guerra arrivano ad abituarsi alle sirene e ai bombardamenti e ogni volta considerano un successo poterlo raccontare.
Abituarsi a una situazione non significa esserne contenti o essere d’accordo, significa attestarsi al miglior livello possibile di compromesso tra ciò che vorremmo e ciò che possiamo ottenere.
Inorridiamo all’idea che ogni settimana possa esserci un attentato sanguinario e che possa accadere anche a casa nostra, ma se accadesse davvero ogni settimana… (si, lo so, sembra una bestemmia!) finiremmo per abituarci. O chiederemmo asilo come fanno i rifugiati.
L’asticella dello sconvolgimento si alza ad ogni giro. Quello che ieri ci sconvolgeva oggi ci turba e domani non meriterà neppure la nostra prima pagina interiore. Non dovremmo lasciare agli altri la decisione sul livello dell’asticella della nostra sensibilità. E’ una delle decisioni più preziose che ci spettano.
Abituarsi è un anestetico e un analgesico: in piccole dosi ci aiuta a sopravvivere e ad accettare la realtà, in dosi grandi e ripetute ci rende insensibili, a lungo andare ci uccide.