In questo 2008 anno vari episodi di insofferenza e di violenza nei confronti di stranieri immigrati hanno prodotto fenomeni d?opinione collettiva molto frequenti in Italia. L?evidenziazione mediatica di tali episodi, in fila, ha fatto pensare che si possa giungere al razzismo come nuova grande malattia italiana. E si è scatenata la ridda di dichiarazioni, segnalazioni e denunce del pericolo, di scontro politico e di riaffermazione dei princìpi di civile convivenza che ha nei secoli contraddistinto la nostra società.
Certo, abbiamo il dovere di temere il razzismo. Ma l?impressione è che vi sia un notevole scollamento fra le polemiche in corso e la più fisiologica e silenziosa evoluzione del modo in cui si fa quotidianamente integrazione di immigrati nelle fabbriche, nelle famiglie, nelle realtà locali italiane.
Ogni società fa integrazione attraverso lo sfruttamento delle proprie componenti socio-economiche dominanti: la Germania attraverso la grande impresa, quella che ha metabolizzato senza traumi milioni e milioni di turchi; la Gran Bretagna attraverso i mille percorsi di una multiculturalità ricevuta in eredità dai trascorsi imperiali; la Francia attraverso una regolazione assistenzialista a forte tradizione statalista.
Noi facciamo integrazione utilizzando anche inconsciamente le tre grandi componenti del modello italiano: facciamo integrazione nella piccola e piccolissima impresa dove gli immigrati trovano un clima relativamente sereno e parametri di responsabilizzazione personale tanto che non a caso, imitandoci, corrono anche l?avventura imprenditoriale. Facciamo integrazione nelle famiglie, dove milioni di collaboratori domestici e di badanti entrano lentamente nella dinamica sociale quotidiana. Facciamo integrazione nelle piccole città, nei paesi, nei borghi, dove milioni di immigrati trovano un alto tasso di socializzazione collettiva e sperimentano un adeguato tasso di controllo sociale.
Qualcuno ha parlato in proposito di integrazione ?morbida?, un po? esagerando se si ricorda che dai tre processi sopra citati restano fuori due inquietanti realtà: quella delle grandi città e delle loro periferie nella cui anomia senza socializzazione s?intrecciano pericolosamente la devianza degli immigrati e l?aggressività di bulli e teppisti indigeni; e quella delle zone di forte criminalità organizzata dove la vulnerabilità sociale è più alta e dove possono intrecciarsi devianze di diversa origine e potenza.
Ma è proprio su queste due sorgenti di inquietudine e pericolo che vanno focalizzate attenzione e impegno senza dimenticare che esse andrebbero affrontate anche se non ci vivesse neppure un immigrato. E senza cedere alla diffusa tentazione di ragionare su una generale ?deriva razzistica?. Questa tentazione è naturale per chi vive di drammatizzazioni mediatiche o politiche ed è doverosa per chi deve ricordare grandi princìpi di civiltà collettiva. Ma è una tentazione che ci allontana dalla realtà, dai processi e dai percorsi su cui, senza clamori, si fa integrazione sociale di immigrati, processi e percorsi inadatti all?enfatizzazione mediatica e alla cultura degli eventi, ma incardinati saldamente in quella forza della lunga durata che ci ha sempre accompagnato nel tempo.
(da Il Delfino, www.ceis.it)