In Parlamento e nelle grandi società l´Italia non è più un paese per vecchi. A sorpresa tiene testa agli Stati Uniti e continua nel processo di rinnovamento La Lega per prima ha puntato sulle nuove leve. Ma le università fanno eccezione.
Le rogne di un ricambio generazionale sono tutte del Pd.
Il gruppo più giovane della legislatura è del Carroccio: solo 40 anni in media.
Il premier italiano è tra i più anziani d´Europa: 72 anni contro i 48 di Zapatero.
Un indizio di conflitto generazionale fa capolino con il gonfiarsi dell´Onda studentesca – e speriamo che non sia fittizio, che duri e nel tempo si rafforzi. Finalmente, una forma di resistenza individuale e collettiva a un modello normalizzato che riconosce soltanto incertezza e precarietà alle giovani generazioni non protette dalla famiglia, dalle relazioni amicali, dalle connessioni di interesse. Un pregio della falsa «riforma Gelmini» è innegabile: ha costretto molti giovani ad aprire gli occhi su quel che li aspetta: precarietà prolungata; mediocri e intermittenti guadagni; incertezza nel reddito; insicurezza sulla continuità del lavoro; assenza di sostegno pubblico; impossibilità a programmare una vita consapevole (unione, nascita di figli, mobilità). I giovani sono come congelati in una dimensione di adulti immaturi, privati di opportunità e autonomia; imprigionati in un modello sociale e produttivo che non sa riconoscere la qualità e non premia il merito.
Al più, quando va bene (e va bene ai soliti noti), il «modello italiano» concede l´attenzione di una di quelle consorterie – Pierluigi Celli le chiama più esplicitamente «bande» – che «accreditano competenze, contrattano alleanze, tassano ogni forma di collocamento».
A fronte di questo dramma e dell´accenno di conflitto sociale che si può intravedere, il dibattito sull´esclusione dei «giovani» dalla leadership politica di una «Repubblica della Terza Età» è una lagna soporifera. È un piagnisteo che trascura una realtà molto più contraddittoria del diffuso luogo comune del «Paese dove il tempo si è fermato». È gne-gne che occulta un´autentica questione che interpella non tutto il Paese né tutto il ceto politico. Ma soprattutto l´università e la sinistra riformista (o il centrosinistra, chiamatelo come volete). Per almeno quattro ragioni.
Dunque, una giovane classe politica sarebbe tenuta fuori dalla porta delle stanze che contano. Primo argomento: sono davvero giovani?
Quei «giovani» che chiedono attenzione e pretendono, come un atto dovuto, accesso al potere, alle élites, alla classe dirigente, sono falsi giovani, ingrigiti, maturi, diciamo già un po´ spelacchiati. Come spiega Francesco Billari (il Mulino, 5/2007), le Nazioni Unite quando progettano azioni dedicate allo youth empowerment (più potere ai giovani) definiscono giovanile l´età che corre tra i 15 e i 24 anni e chiamano addirittura «giovani adulti» quelli che hanno tra i 20 e i 24 anni.
Anche la Commissione Europea considera «gioventù, l´età della vita che va dai 15 ai 25 anni». È dunque una bizzarra anomalia italiana considerare «giovane» chi è nato dopo il 1968 e magari ha già festeggiato i quarant´anni. Non è peraltro una anomalia del presente (secondo argomento).
Alberto Alesina ha ricordato che, quando nel 1984 Franco Modigliani vinse il premio Nobel per l´economia, gli studenti italiani di economia di Harvard e del Mit lo invitarono a cena in un ristorante toscano di Boston. Modigliani raccontò che all´età di 52 anni, durante un seminario in Italia, fu presentato come «un brillante giovane economista» e lui replicò, quando prese la parola: «Grazie per il “giovane”, ma negli Stati Uniti mi considerano un po´ passé».
L´anomalia quindi non è nuova in Italia. Di nuovo, al contrario, c´è (terzo argomento, alquanto sorprendente) il tentativo di svecchiare élite politiche e ceti dirigenti. È vero, Berlusconi è in là con gli anni (72 anni) e lo separano più o meno due decenni da Sarkozy (53 anni), Merkel (54), Zapatero (48), Brown (57), però è altrettanto vero che, se si guarda ai cinque ministeri chiave, Economia (Tremonti, 61 anni), Interni (Maroni, 53), Esteri (Frattini, 51), Giustizia (Alfano, 38) e Difesa (La Russa, 61), la media è di 52 anni (era di 63 nel governo Prodi). Se poi si sbirciano i dati raccolti da Marco Leonardi (economista, Statale di Milano), si scopre che in Italia la giovane età non è un deficit nemmeno per gli amministratori delegati delle 200 aziende quotate in Borsa a Milano. Età media, 52,6. Nelle 4049 aziende quotate a Wall Street, l´età media dei chief executive officer (CEO) è più alta, anche se di mezza incollatura: 53 anni. Semmai i problemi sono tutti nella gerontocratica università italiana. Tra gli oltre 18mila cattedratici, solo 9 hanno meno di 35 anni e tre su dieci ne hanno più di 65, hanno contato Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella. Epperò lo svecchiamento degli ultimi anni con il proliferare di corsi di laurea e di sedi universitarie, con l´aumento del 100 per cento dei professori ordinari (ma alcuni parlano del 150 per cento) non ha migliorato la qualità né della ricerca né dell´insegnamento. Non basta essere giovani per cambiare in meglio l´esistente. Di sicuro non nell´università italiana.
A ben guardare, la politica se la passa meglio. Sei governatori hanno meno di 50 anni e l´età media è di 53 anni. Alla Camera l´età media degli eletti è di 50 anni e al Senato di 54 (senza i senatori a vita): una spanna meglio del Congresso americano dove, ricorda Leonardi, dal 1996 l´età media degli eletti è di 51 anni e al Senato di 58. In questo orizzonte, si dimentica sempre (colpevolmente, ottusamente) la rivoluzione della Lega. Il più “antico” partito del Parlamento italiano è la forza politica che, nell´ultimo decennio, ha governato un quarto del Paese creando, come ha osservato Andrea Romano, una classe dirigente «giovane e competente». Il 77 per cento degli eletti in Parlamento del Carroccio ha un´età che oscilla tra i 29 e i 49 anni (fonte, la voce.info) e la gran parte dei duecento sindaci leghisti sono quarantenni. I casi di Federico Bricolo (41 anni), già eletto nel 2001 (a 34), o dell´ex assessore del Veneto Francesca Martini (46 anni, già eletta alla Camera nel 2001 a 39) o di Matteo Bragantini (32) non sono eccezioni nel gruppo parlamentare più giovane della legislatura, età media 44 anni. È una classe dirigente cresciuta all´ombra della vecchia guardia padana, secessionista e folklorica, ma oggi pragmatica custode delle attese e le ambizioni di un elettorato che conosce come la sua famiglia e di un territorio che abita come la propria casa. È un´élite consapevole che debba essere la Lega «il motore riformatore del governo».
Silvio Berlusconi, si sa, non ha bisogno di una classe dirigente. Basta a se stesso. Come ha scritto Alberto Asor Rosa su questo giornale, il nostro carismatico premier «è un grande distruttore di élite: dove lui passa, non c´è straccio di classe dirigente che resista». Si sente Napoleone III o forse – meglio – Luigi XIV. Per governare gli è sufficiente un Richelieu (Gianni Letta, 73 anni), un Colbert (Tremonti) e, per antica abitudine, un avvocato (Niccolò Ghedini, 49). Per il resto, il sovrano si circonda di cortigiani sorridenti, fantaccini ostinati, belle e giovani signore e di un corteo di «vogatori, cruciferi, flabellieri, turiferari, toreadori», intercambiabili e ininfluenti come un Daniele Capezzone (36 anni). Da questo punto di vista, le rogne di un ricambio generazionale sono tutte allora del Partito Democratico, partito nuovo che si lascia alla spalle il suo solo leader vincente (Romano Prodi, 69 anni). Il PD, attor giovane del sistema politico italiano, dovrebbe essere più sensibile a liberarsi dell´autarchia generazionale e, a parole, è così.
Altri sono i fatti. Tra gli eletti del Pd gli under 40 (dunque, i giovani autentici) sono appena il 13 per cento e, se si allarga la forbice ai 49 anni, si arriva soltanto al 43 per cento (34 per cento in meno rispetto alla Lega, il partito – ripeto – più «antico»). Un risultato assai modesto, anche se il PD è riuscito ad abbassare in questa legislatura la media dei suoi eletti da 54 a 49 anni, un anno in meno del Partito della Libertà (50). Se poi si guarda ai criteri di selezione o alla qualità di questa presenza giovanile, la luna diventa nera. Al contrario dei volti nuovi della Lega, non si scorge nessun radicamento nel territorio, nessun legame con la società. Paiono decisive cooptazione, fedeltà senza discussione, buona presenza mediatica.
L´avventura politica di Marianna Madia ne è il prototipo più esplicito. Ventotto anni, scelta addirittura come capolista a Roma, presentata come «economista» tra le perplessità degli economisti, avventurosamente si presentò così: «Metto al servizio del Paese la mia incompetenza». Merito, competizione e senso di responsabilità non orientano i comportamenti e le scelte di chi governa il Partito Democratico né sollecitano quei giovani che chiedono di governarlo o almeno di contare di più, di avere più spazio e potere. Chi, con la giovane età, una competenza può vantarla come Irene Tinagli (34 anni, ricercatrice presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh) se ne va già disillusa («Ero stata contattata per le mie competenze tecniche, in un anno di PD non sono stata consultata nemmeno per un parere»). Nella convinzione che l´azione politica si svolga tutta all´interno dello spazio mediale, ha nel PD più visibilità un demi-monde mediatico, blogger come Luca Sofri (44 anni), Diego Bianchi (38), Mario Adinolfi (37). Competenze? Pochine. Luca Sofri lo ha ammesso con onestà durante i lavori di una direzione (è tra le venti personalità indicate da Walter Veltroni). Sofri disse a brutto muso: «Sono qui a discutere come affrontare il secondo decennio del Duemila le stesse persone che non hanno saputo affrontare il primo e che erano qui nel millennio precedente» per poi concludere: «. Non pretendo di spiegare a persone molto più esperte e competenti di me quali contenuti dare al presente e al futuro del Partito Democratico. Non sto parlando di contenuti e non sarei all´altezza di discussioni molto approfondite ed elaborate».
Chapeau!
Ho l´impressione che, in assenza di competenze, i giovani che vogliono fare del PD, come scrivono nel loro blog (Uccidere il padre), «un partito moderno, democratico, laico e di sinistra» (e capirai che puntuta e illuminante freschezza), chiedono soltanto di togliersi dai margini, di farsi benedire e riconoscere sventolando appartenenza. È l´accorta pulsione, temo, che può spiegare la rimozione in quel partito di ogni conflitto politico per mano dei più giovani.
È il quarto e ultimo argomento: se si guardano i numeri, la politica italiana non è priva di giovani. Anzi, è giovane. Il suo deficit è un altro.
Se si guarda al PD, è ossessionata dall´obbedienza, disinteressata alle competenze spendibili liberamente. È dominata dalla prudente ragione del primum vivere che orienta da sempre i maturi di ogni partito e ora anche gli acerbi dell´ultimo partito nato. E´ una politica che non conosce il conflitto.
Il conflitto vero sulle questioni reali (non le cerimonie mediatiche) è, al contrario, sempre salutare e necessario se un corpo sociale, qualche che sia, non vuole sclerotizzarsi e conservare vitalità e dinamismo. E´ il conflitto il grande assente nel parolaio del discorso politico giovanilistico. Dove comme il faut si fa un gran parlare di Barack Obama (chi sarà il nostro Obama? dove troveremo il nostro Obama?).
Si dimentica che il nuovo presidente americano ha sconfitto in campo aperto, al termine di una lunga e dura battaglia, Stato per Stato, elettore per elettore, due micidiali clan politici (Bush e Clinton) che hanno governato gli Stati Uniti negli ultimi venti anni. Lo ha fatto in splendida solitudine ché, in avvio, ha dovuto fare a meno anche dell´appoggio della macchina elettorale afroamericana di Al Sharpton e Jesse Jackson che lo guardavano con freddezza. Ce l´ha fatta non perché è su Facebook (anche), ma perché (innanzitutto) ha un´idea della natura della crisi degli Stati Uniti e un programma per affrontarla. È apparso autorevole, credibile, responsabile, capace di stringere forti legami sociali, di radicarsi nel Paese e tra la sua gente perché la sua intelligenza delle cose è maturata a contatto con la realtà in cui vive e si muove un popolo in carne e ossa e non nel mondo frammentato dell´immagine, dei consumi, delle mode, dello spettacolo dove abitano soltanto figurine di cartone.
Se prendere atto delle metamorfosi non significa condividerle, si può dire – e non è una provocazione – che la declinazione della politica di Obama ha più a che fare con la giovane classe dirigente della Lega che non con i giovani leoni senza denti del Partito Democratico. Converrà allora che quei giovani si diano da fare. Riscoprano il conflitto. Comincino a pretendere regole certe per le primarie, come propone da tempo Tito Boeri. Pretendano il ritorno al voto di preferenza. Esigano che l´età di elettorato attivo e passivo coincida, come in Germania, Svezia, Spagna. Diano battaglia. Soltanto con un conflitto aperto di ideali, progetti, analisi, competenze, soltanto con un conflitto leale nella raccolta del consenso, quindi nella misura di un concreto radicamento sociale, si potrà coltivare la speranza di un nuovo riformismo, la convinzione di potercela fare a cambiare l´Italia, a fermarne il declino e la deriva autoritaria. Altra ambizione non può esserci e, se c´è, non è soltanto mediocre. È perdente e, peggio, noiosa come un´impotente lagna.
Repubblica 24.11.08