Eravamo riuniti per la colazione. Sapevo che mio padre avrebbe affrontato la questione. Non avrebbe lasciato correre dopo aver trovato in camera mia i volantini della manifestazione che stavamo organizzando. “Hassan – mi disse – l’università è fatta per studiare, non devi distrarti partecipando a quelle riunioni con i tuoi amici: ti fanno perdere tempo e soprattutto sono pericolose. Devi laurearti”. Io non risposi neppure, avevo fretta di uscire di casa. Mio padre, un ingegnere civile, stava lavorando a un progetto importante per la Guinea: una diga che avrebbe fatto arrivare l’acqua potabile in molte case. Purtroppo ha poi dovuto lasciare il lavoro a causa di un infarto e nessuno mi toglie dalla mente che quell’infarto sia stato causato anche dalle preoccupazioni che gli procuravo con la mia passione  politica.

Studiavo informatica e matematica e facevo parte di un movimento universitario attivo contro le violazioni dei diritti umani compiute dal governo. In quei giorni c’era molto fermento: preparavamo una manifestazione in favore di un giornalista scomparso misteriosamente. Eravamo consapevoli dei pericolo ma non ci importava. Eravamo pieni di entusiasmo, di speranza e ci sembrava che nulla ci avrebbe potuto fermare. E invece siamo stati arrestati, uccisi, fatti sparire nel nulla. Poveri noi che credevamo di farcela contro la polizia, l’esercito, le armi, solo tenendoci per mano e camminando e rivendicando i nostri diritti.

Quel sabato, alla manifestazione, c’era tanta gente. Avevamo distribuito volantini, appeso manifesti ovunque, e avevamo anche scritto un documento di denuncia da distribuire ai partecipanti. Ma durò poco. La polizia intervenne e fummo presi in quindici. Ci picchiavano e ci minacciavano con le armi. Insieme ad altri tre sono stato spinto in un’auto e mi sono ritrovato chiuso in cella, senza avvocato, senza processo, senza poter parlare con nessuno. Del carcere non voglio parlare: mi fa troppo male ricordare, mi vergogno di quello che mi hanno fatto. La mia libertà è stata comprata da mio padre, che ha raccolto i soldi necessari per corrompere la guardie e farmi fuggire.

Ora sono rifugiato in Italia. Da otto mesi vivo da solo in un Paese straniero dove quello che ho studiato non ha alcun valore. Ciò per cui ho combattuto non esiste più.  A volte penso che la mia vita non ha senso qui e vorrei ritornare a casa. Ma ora è impossibile, i militari tornano periodicamente a casa per sapere dove sono. Mettono tutto sottosopra, minacciano i miei e li terrorizzano. Cerco di non credere al senso di colpa per quello che ci è capitato. La colpa è del governo, dell’esercito, del mio paese che non conosce la libertà.