“Desidera?”. Il portiere romano, come impone il suo ruolo, fa da filtro. Devo convenire che la compagnia che si appresta a far visita a Andrea Camilleri questo pomeriggio è piuttosto bizzarra. Io, la mia collega Margherita (emozionate come scolarette), un simpatico ragazzo somalo di nome Ali  e la squadra di Artigiani Digitali al gran completo, con il delicato compito di documentare il tutto. Equipaggiati, decisi, ma con un’idea appena abbozzata di cosa sarebbe successo. Siamo spinti soprattutto da un’idea, una di quelle idee che formuli tra te e te senza immaginare che si possa realizzare davvero. E invece questa si è realizzata eccome. A tempo di record. Ma facciamo un passo indietro, altrimenti non capite niente.

Estate 2010. Siamo in ufficio, al Centro Astalli. Per l’ennesima volta, con i colleghi, si parla dell’incredibile indifferenza della società italiana rispetto al tema dei rifugiati. In quei mesi assistevamo impotenti al respingimento indiscriminato in Libia di uomini, donne, bambini. Persone in fuga da guerre, persecuzioni, torture. Che, in un silenzio assordante, venivano rimbalzate verso altri abusi, altre carceri, altre torture. Così è nata l’idea di intervistare quelli che, invece, erano riusciti ad arrivare. Dieci rifugiati, tutti provenienti dal Corno d’Africa. Dieci storie incredibili, ma soprattutto una ricchezza sconvolgente di idee, punti di vista, visioni del presente e del futuro.

Primavera 2011. Abbiamo finito di scrivere le storie. Abbiamo trovato un editore, Avagliano. Ma un’altra idea, più folle della precedente, si insinua prepotente. Non ci basta pubblicare le storie. Vogliamo che queste voci trovino degli interlocutori. “Scrittori famosi? Ma siete sicure?”, ci ha detto il mio capo. Sì, io e la mia collega Donatella eravamo sicurissime. Una follia. Pochissimo tempo, rischio altissimo di non trovarli tutti, libro da chiudere nel cuore dell’estate. La nostra incoscienza è stata premiata e dieci autori hanno letto ciascuno una storia e ci hanno regalato delle introduzioni specialissime. E che autori. Non me li fate elencare, tanto li abbiamo scritti ben bene sulla copertina del libro. Che, nel frattempo, aveva anche trovato un titolo: “Terre senza promesse. Storie di rifugiati in Italia”.

Ottobre 2011. Ce l’abbiamo. A giorni sarà in libreria. Ma noi non resistiamo a un’ultima tentazione. Andrea Camilleri ha introdotto una delle storie che più ci sono rimaste nel cuore, quella di un ragazzo somalo, arrivato in Sicilia minorenne, con il suo fratellino più giovane. Da quando abbiamo messo su carta il suo racconto incredibile abbiamo pensato: leggere non basta, dovrebbe conoscerlo di persona. Perché Ali è un ragazzo fuori dal comune, un vero narratore. Capace di tenerti tre ore inchiodato alla sedia, facendoti morire dal ridere anche se quello che racconta è a tratti davvero tragico. E allora glielo abbiamo chiesto, a Camilleri. Non è che vorrebbe incontrare il ragazzo? Sì, certo, ci manda a dire lui. E ci dà un appuntamento. Oggi.

Ali ha un’idea un po’ vaga di chi sia Camilleri. Però ha capito che è roba grossa. Mentre eravamo al tavolino di un bar, a Stazione Trastevere, io tentavo di spiegargli per sommi capi. Ma più efficace è stata una giovane signora, africana anche lei, che si è inserita con nonchalance nella conversazione per dirgli: “Ehi, ma quando ti ricapita? Camilleri, ma davvero non sai chi è? Montalbano, la televisione… Credi a me, vacci di corsa! Anzi, magari ci vengo anche io”. E da lì sono partiti a scambiarsi racconti di vita, mostrandosi a vicenda foto di congiunti, vivi e defunti, sparsi ai quattro angoli del mondo. Io mi sono sentita un po’ esclusa e molto, molto provinciale.

Torniamo a noi. Si va. Lui ci riceve con incredibile affabilità. Scherza sui cuscini del divano (“Non li sopporto. O me, o loro”). Si fa raccontare un po’. Io a questo punto perdo ogni soggezione e mi accuccio accanto al bracciolo della poltrona, chiacchierando come se nulla fosse. Quando ripenserò a questo momento, mi chiederò come sia potuto essere così facile. Beh, evidentemente Camilleri è una delle poche persone con la dote innata di farti sentire a casa. Anche con Ali è gentilissimo. Il ragazzo è, ovviamente, un po’ intimidito. “Che sigarette fumi?”, attacca lui. E da lì iniziano a chiacchierare, con il Maestro che racconta la sua prima sigaretta, offertagli dagli americani sbarcati in Sicilia.

Poi sorride e ci fa: “Se siete pronti, vado”.  A quel punto il tempo si è fermato. Non è che si fosse preparato, proprio no. Ma dice molte cose, splendide, profonde, originali. Parla di come noi, schiavi dei mercati, siamo abituati a parlare degli stranieri quasi esclusivamente in termini di “contributo al PIL”. “A me interessa soprattutto il contributo che i rifugiati possono dare al PIL culturale del nostro Paese”. Parla del suo “sangue bastardo” di scrittore dai molti padri (“nel mio sangue c’è l’Irlanda di Joyce, molta Francia, e poi ovviamente la Russia del mio Gogol”); parla della lingua italiana, di quante nuove prospettive possa aprire il vederla utilizzata da chi non è madrelingua; parla della cosiddetta integrazione, che non è “adeguarsi”, ma trovare un nuovo contesto per esprimersi. E poi, ancora, aneddoti e racconti. Di un servizio girato per la RAI a Mazara del Vallo, molti anni fa: in una scuola ragazzi tunisini e ragazzi siciliani convivevano serenamente, anche grazie all’attenzione di un maestro illuminato. Il problema consisteva nel fatto che le riprese dei bambini che giocavano insieme in cortile si erano poi rivelate inutilizzabili per il documentario, perché bambini tunisini e bambini siciliani risultavano per lo spettatore assolutamente indistinguibili.

Parla convinto di questo Mediterraneo “che è una vasca da bagno”, della vicinanza sostanziale di chi si bagna su una sponda e sull’altra. Sottolinea la somiglianza tra lo stile del racconto di Ali, affabulatorio e ironico, e i racconti degli anziani della sua terra: eredità ancora vive di secoli di tradizione orale, di narrazioni che passano di bocca in bocca. Ali pende dalle sue labbra, insieme a tutti noi. Poi i due tornano a chiacchierare e Ali osa qualche domanda. “Perché sei andato via dalla Sicilia?”. “Era tanto tempo fa. Allora non era come oggi, non c’erano telefoni, non c’erano giornali. Si era completamente isolati. Oggi certamente non me ne andrei dalla mia terra”. E poi aggiunge: “Sono due anni che non ci vado. Ho una nostalgia che mi divora”. Ali in Sicilia c’è stato e ci tiene a farlo sapere: “Sì, bella la Sicilia! Hai visto, che bel mare?”. Qui già noi sorridiamo e Camilleri con noi. Ma poi Ali continua, convinto: “E poi lo sai che in Sicilia non parlano come qui? Non parlano proprio italiano? Un po’ come i napoletani, parlano una lingua diversa. Ecco, io queste lingue un giorno voglio impararle tutte”. Qui la nostra ilarità è incontenibile. Gli mancava proprio, a Camilleri, una spiegazione dei dialetti d’Italia!

È stata un’ora assolutamente indimenticabile. Camilleri ci ha salutato tutti con grande calore, si è prestato con pazienza a svariate fotografie (Ali a quel punto ha cacciato la macchinetta e ha iniziato a darsi da fare come un turista giapponese. Non prima, ovviamente, di essersi fumato una bella cicca con il Maestro). Il saluto al giovane Ali è stato lungo e sincero. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata una frase, un po’ mimetizzata tra le molte altre. Ali raccontava di suo fratello che vive in Svezia e che, ovviamente, può godere di ben altri servizi sociali. “Questo Paese è un po’ diverso”, ha aggiunto con sobrietà il ragazzo. “Ma cambierà”. Su questo, apparentemente,Camilleri non ha il minimo dubbio. Non l’ha detto così, per dire. Non era una frase fatta. Lui ci crede davvero che l’Italia cambierà. È solo questione di tempo. C’era qualcosa, nel suo tono, che mi ha fatto vergognare dei miei troppi momenti di scoramento, di scetticismo. Cambierà e il cambiamento sarà opera (anche) nostra.