Alcuni episodi hanno scatenato negli ultimi giorni accese discussioni sui giornali, in televisione e sui social. Mi riferisco alla vicenda dei posti assegnati dal protocollo al presidente del Consiglio europeo Charles Michel e alla presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen nell’incontro ad Ankara e al passaggio dell’intervento di Draghi («Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa, per i salvataggi, e nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia») nell’incontro a Tripoli con il nuovo capo del governo di transizione Abdel Hamid Dbeibah. Entrambi gli incontri incrociavano il tema rovente delle migrazioni.
Senza voler entrare nel merito delle controversie innescate dai due episodi, mi preme qui sottolineare un aspetto di cui queste polemiche sono rivelative. Mi ha colpito la modalità virale con cui la discussione si è focalizzata e sviluppata sui dettagli identificati dai media (la “sedia” mancante ad Ankara e il passaggio di Draghi sui “salvataggi”) senza alcuno sforzo di inquadrarli nel contesto in cui si inseriscono, nella complessità e gravità della posta in gioco e nella fase politica dei due paesi in questione. Mi ha stupito l’insistenza ossessiva sull’interpretazione del particolare come se fosse preferibile definire il quadro generale dal dettaglio, anziché valutare il dettaglio alla luce dal quadro generale.
Ovviamente -ci tengo a sottolinearlo- non mi sfugge il peso simbolico dei dettagli e non intendo affatto sminuire i significati che tali dettagli possono avere (o che ad essi si possono attribuire), ma il significato di quello che si fa, si dice o si omette dipende principalmente dalla politica che si vuole perseguire e proprio questo è il vero problema: quale politica vogliamo perseguire sul fenomeno migratorio? Ce l’abbiamo?
E’ la politica di “Mare nostrum”, che nel 2013 salvò più di centomila persone in fuga dalla Libia, o quella del “Memorandum” di Minniti che finanzia le motovedette libiche? E’ ancora possibile oggi affermare a livello europeo la logica di Mare nostrum o è irreversibile la scelta di Frontex come puro controllo delle frontiere che porta a non fare differenza tra il salvataggio in mare di chi fugge e la politica migratoria di ampio respiro? E, soprattutto, in quali sedi si definisce la politica dell’immigrazione? Con quali argomenti e con quale consenso? Possiamo lavorare (e come) sulla costruzione del consenso intorno a questi temi o ci limitiamo ad indignarci per le affermazioni di segno opposto? Queste le domande alle quali dobbiamo dare risposta se vogliamo definire una politica coerente.
“Non esiste vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare” e accanirsi sul dettaglio della frase di Tripoli o insistere solo sullo sgarbo della sedia di Ankara, in un incontro per trattare con Erdogan ulteriori finanziamenti per trattenere nei campi profughi i migranti che noi non vogliamo, non ci aiuterà a definire alcuna politica coerente; ci costringerà piuttosto a navigare a vista in un mare ostile in cui i pirati -al contrario- sanno benissimo cosa vogliono e tracciano rotte decise e senza scrupoli.