Anche oggi sono seduto nell?ufficio del Centro Astalli, aspettando il mio turno. Per ingannare l?attesa, sfoglio il rapporto annuale del Centro, guardo i progetti uno per uno: una volta, in Bangladesh, questo era il mio lavoro. Fin da quando ero molto giovane, mi sono dedicato allo sviluppo del mio paese, dove le persone che hanno bisogno di aiuto sono moltissime: famiglie che non hanno cibo a sufficienza per sfamarsi, donne vittime di violenza, giovani che non hanno l?opportunità di accedere all?istruzione.
Facevo parte di una ONG che opera nel distretto di Patuakhali e mi occupavo di coordinare due progetti: un progetto di microcredito, che aveva come obiettivo di migliorare la situazione economica di un gruppo di famiglie molto indigenti di un villaggio, e un progetto di alfabetizzazione per adolescenti.
Purtroppo la povertà non è l?unica piaga che affligge il Bangladesh. Dai risultati di tre diversi monitoraggi internazionali, il mio paese risulta il paese più corrotto del mondo. La democrazia è una mera formalità: il partito di governo (Bangladesh National Party) contrasta con ogni mezzo qualsiasi forma di opposizione politica.
Da tempo ormai è stato istituito un gruppo paramilitare, noto come RAB (Rapid Action Batallion): uno strumento comodo e veloce con cui il governo si sbarazza di chi non è d?accordo. La vita di chi opera per la difesa dei diritti umani è particolarmente a rischio: un collega, che lavorava per un?altra ONG, aveva ricevuto pressioni da esponenti locali del BNP affinché prelevasse forti somme dai fondi per le attività umanitarie e li girasse a loro. Lui si era rifiutato ed era stato picchiato violentemente con bastoni.
La mia esperienza diretta è iniziata con le elezioni politiche del 2001: avevo solo 19 anni e lavoravo come osservatore presso un seggio elettorale. Ho visto con i miei occhi le pesanti irregolarità compiute in quel seggio, che hanno capovolto il risultato del voto. Subito ho capito che non solo non potevo fare nulla, ma che la mia stessa presenza lì non sarebbe rimasta senza conseguenze. Lasciai il lavoro presso la ONG, per non compromettere altre persone: ma ero troppo giovane per rassegnarmi.
Tutti mi consigliavano continuamente di tacere, ma arrivò il giorno in cui non riuscii a sottrarmi al dovere di parlare.
Il mio partito, l?Awami League, aveva organizzato una manifestazione durante la quale era stata allestita una mensa per i poveri. Alcuni esponenti del partito di governo hanno cercato di impedirne lo svolgimento. È stato allora che ho preso il microfono e ho cercato di far capire a tutte quelle persone come stessero davvero le cose: la situazione è precipitata, non restava che fuggire. Con l?aiuto di mio padre mi trasferii in un?altra città, ma sapevamo entrambi che la questione non sarebbe finita lì. Pochi mesi dopo, un membro del BNP fu ucciso.
Appresi dai giornali che io ero stato indicato come responsabile. Attraverso un avvocato, mio padre ha cercato di chiarire la mia posizione, ma fu evidente che ogni tentativo era inutile. Era arrivato il momento di lasciare la mia terra, il mio popolo.
Senza discutere, senza aggiungere una sola parola.
Per sempre.

M.H. oggi ha 25 anni. Al suo arrivo in Italia non è stato riconosciuto rifugiato, ma ha ottenuto la protezione umanitaria.