L’attuale corso della nostra civiltà si trova a dirimere la contraddizione fondamentale tra la vecchiezza (cinquecento anni circa) del concetto di “modernità” ed il ritorno ai criteri della tradizione come metodo recuperato al fine di promuovere la crescita della società nei tempi attuali.
La spinta ipertrofica del concetto di sviluppo industriale, ultima frontiera della modernità, viene ancora presa a punto di riferimento dai poteri di “vertice” che governano il vivere civile mentre, d’altro canto, strati sempre più ampi dell’intellettualità scientifica e umanistica tendono ad un ripensamento profondo e complessivo della strategia di progresso adottata dal mondo negli ultimi sessanta anni. E questa dicotomia, interpretata con disagio ed inquietudine dai popoli del mondo, genera forte incertezza in coloro che disegnano, progettano ed attuano la politica. Allo stesso tempo, però, la domanda di una politica che adopri metodi e comportamenti nuovi diventa sempre più pressante persino da parte di coloro che decidono di astenersi dal partecipare ai processi politici istituzionali o partitici. Di fronte a tutto questo, soprattutto nel nostro Paese, occorre superare la preoccupazione delle modalità in cui il “prodotto politico” viene proposto e venduto. C’è infatti la necessità che il mondo politico prenda con coraggio e serietà la determinazione per proporre alla società un’altra vita possibile che riesca a superare nel concreto la profonda contraddizione teorica di cui prima ho parlato. Tracce importanti di riflessione sui limiti dello sviluppo industriale si trovano nel percorso della nostra civiltà già da circa quarant’anni, fino al conio della definizione del concetto di “sviluppo sostenibile”. È giunto, però, il momento di andare oltre; di trarre conclusioni più complessive e profonde. Questo è il tempo in cui la politica deve tirar fuori dal proprio ambito un disegno nuovo e complessivo per l’intero sviluppo della civiltà.
E, per la prima volta dopo secoli, questa soluzione non è attesa come prima avveniva dall’ambito della cultura scientifica né di quella filosofica, umanistica o della riflessione morale. L’umanità sta rinegoziando totalmente il proprio umanesimo in maniera, ovviamente, tormentata e frammentaria e chiede alla politica di essere guidata in questo processo. È la politica dunque che, nel dilemma critico tra “vecchia modernità” e “nuova tradizione”, deve proporre ai popoli delle nazioni, dei continenti e del mondo, ripeto, un modello possibile per la vita nuova che tutti ci aspettiamo.
Questo piccolo saggio contiene una proposta in tal senso.
L’ECONOMIA MODERNA
È di patrimonio comune: la modernità ha progredito verso una sempre più spinta industrializzazione dell’economia produttiva e di scambio. A supporto di tale progresso ha reso inoltre disponibili mezzi sempre più sofisticati nell’ambito dell’economia cosiddetta finanziaria. È su tale terreno che le forze economiche hanno negoziato, anche traversando momenti dolorosi, il loro patto. Tale negoziazione ha previsto, come strumento attuativo del progetto ma anche come segno della sua effettiva realizzazione, lo sviluppo dei “grandi processi accentrati”. Queste grandi fasi centralistiche, di produzione, di scambio ma anche di direzione amministrativa e governativa, hanno tenuto scarso o nullo conto dell’esaustibilità dei mezzi basilari di sussistenza: acqua, aria pulita e territorio in generale.
La medesima negoziazione prevedeva inoltre di bloccare totalmente la società sul modello dell’arricchimento monetario, per i prestatori d’opera, e dell’incremento finanziario per i detentori o gestori dei mezzi di produzione. La crisi, strisciante dal 2004 e conclamata come sistematica all’inizio dell’ulteriore decennio, trova la propria ragione nell’ormai totale inefficienza di quel patto e nell’obsolescenza del suo contenuto. La spinta emotiva che è stata alla base dello sviluppo industriale della produzione e del commercio, si va ineluttabilmente spegnendo all’interno dei sistemi cosiddetti pienamente sviluppati, anche di fronte al dato matematico della scarsità delle risorse considerate primarie per la vita.
E andrà parimenti esaurendosi per quello che riguarda i paesi “in via di sviluppo”. I più forti tra questi ultimi, anche se stanno tentando di investire industrialmente sul recupero ambientale, non riusciranno a mantenere il tasso di preservazione delle “risorse naturali” al passo con quello del proprio sviluppo industriale. E sarà proprio la scarsezza di risorse ambientali e, come stretta conseguenza, la messa in pericolo del tasso medio di salute che genererà in un Paese ad alto tasso di democrazia come l’India la disaffezione verso il modello dell’iperproduttività.
La stessa dinamica porrà invece la Cina, nazione dominata dallo sciovinismo e dal totalitarismo politico, in sempre più aperto e duro contrasto col resto del consesso internazionale.
LA NUOVA ECONOMIA TRADIZIONALE
La necessità di interagire con l’ambiente in modo più razionale e confacente alla natura umana, da decenni in occidente sta facendo manifestare forti segni di volontà di cambiamento nello stile di vita degli esseri umani sia come singoli, sia presi nella vita associativa. Ci si rivolge, quindi, a considerare nuovamente la conservazione delle risorse naturali come attività economica d’interesse primario. Ma ciò non solo. La conservazione delle risorse naturali diviene sempre più soprattutto termine di paragone e di misura per ogni attività di tipo economico. L’intero occidente torna, appunto, a tenere in seria considerazione le riflessioni compiute negli anni ‘ 20 – ’30 del secolo scorso dagli economisti scandinavi.
Dentro un’area sociale sempre più allargata e cosciente, l’indicatore economico della vita umana, riduce infatti l’importanza del “contatore finanziario e monetario” recuperando, invece, il valore della componente più strettamente esistenziale e culturale. A queste persone sembra ineluttabile, nella prospettiva di prolungare la sussistenza del genere umano, il dover interrompere il ciclo di produzione – consumo caratteristico dell’industrialità collegata ai grandi processi accentrati. Si sente come necessario un riequilibrio complessivo di ciò che nel mondo viene prodotto.
Accanto al “PIL”, deve prendere pari grado di dignità ai fini sociali ciò che deve essere prodotto come “NON PIL” (salvaguardia e incremento delle risorse ambientali innanzitutto, formazione e cultura, salute e umanizzazione dei rapporti interpersonali e sociali). Scegliendo la via del contemperamento e riequilibrio del PIL col NON PIL, a livello politico si decide di non considerare il mercato come unico motore dei rapporti sociali. Se ne utilizza invece la strumentazione al fine del reale mantenimento e sviluppo della società nei canoni di “Libertà, Eguaglianza e Fraternità”. La vita nuova, che qui viene indicata come possibile, corrisponde quindi ad un’interpretazione realmente pluralista della società. Si prevede un aggregato sociale, nazionale ed internazionale, che consenta la reale parità tra coloro che scelgono di competere nell’ambito del “PIL” e coloro che invece prediligono come obbiettivo primario per la propria crescita l’incremento del “NON PIL”. Questo per non parlare dell’ipotesi in cui comparti probabilmente ampi della società decidano di perseguire entrambe le strade contemporaneamente, scegliendo attività pratiche che concorrano a produrre contemporaneamente beni o servizi rientranti in tutte e due le classificazioni. Ma, come accennato, il cambiamento complessivo del futuro fronte economico dipende da fattori più importanti. Guidata da spinte esistenziali differenti, la nuova economia tradizionale rinuncia al concetto di “economia di scala”, costruendo alternativamente la filiera a rete. Questo anche in base alla constatazione, brutalmente aritmetica, della progressiva perdita di funzionalità del meccanismo scalare. Ciò a causa dell’ingresso da parte dei “costi ambientali e sanitari” nel conto di scala industriale ove prima questi non erano valutati.
In base a questa considerazione fondamentale, la trasformazione cui porta la concezione della nuova economia tradizionale, come economia di rete, si concretizza nella frammentazione e diffusione dei grandi processi sociali accentrati. La coscienza che l’iperproduttività di massa genera beneficio soltanto ad un numero limitato di individui spinge verso formulazioni imprenditoriali e aziendali commisurate ai bisogni e alla dignità di ciascuna persona.
La necessità di far uscire il “sistema” dalla trappola della finanziarizzazione si risolve nel ricondurre la produzione e lo scambio a interesse diretto di ciascuno di coloro che a queste funzioni partecipano.
Questo, in ultima e più definitiva analisi, risolve il sempre annoso e sottaciuto problema della illiceità di vendere parte di sé stessi ad altri, mediante il lavoro in subordine, per il sostentamento proprio e della propria famiglia.
Il sistema nazionale e internazionale nel proprio complesso, dovrà introdurre meccanismi adatti a recepire il pluralismo economico che verrà generato dalla crescita soprattutto qualitativa della nuova economia tradizionale.
Ciò significa che la politica dovrà apprestare strumenti d’intervento improntati a maggiore equità nei controlli e nella gestione fiscale. Occorreranno, per questo, forze politiche che prendano coscienza di dover adottare strumentazioni di analisi ulteriori rispetto a quelle fornite dalle teorie antiche, ivi comprese quelle di Smith e Hobbes. Occorrerà in particolar modo considerare una nuova e seria forma di wellfare che aiuti e protegga l’avviamento e l’intera vita delle piccole imprese. È qui che l’economia di rete trova il proprio miglior campo vocazionale. Ed è dai nodi che i gruppi di imprese medie, piccole e microimprese sapranno costruire all’interno della propria rete e della rete sociale ( connessione tra dimensione locale e globale) che dipenderà il corso di sviluppo della società pluralista, vero traguardo che il mondo contemporaneo attende.
Molti, in sostanza, desiderano sottrarre il lavoro dal default della subordinazione e dell’iperproduttività; renderlo sempre più mezzo per il raggiungimento della pari dignità a livello sociale; progettare una vita in cui il lavoro stesso sia veicolo per lo sviluppo e il godimento degli affetti e degli interessi morali e intellettuali cari alle persone. Soltanto un sistema di produzione e scambio basato sulla dimensione non di “scala”, o di scala ridotta, potrà far uscire i nostri sistemi economici dalle contraddizioni date dalle “esigenze del moltiplicatore”.
Contrariamente a tale speranza, tuttavia, si deve constatare che la proprietà dei mezzi di formazione delle coscienze e il dominio dei centri decisionali risiedono in ambiti troppo ancorati alle teorie, ai comportamenti e agli interessi dell’economia moderna.
L’intero mondo andrà quindi incontro a ripetute crisi economiche derivanti dal “circolo vizioso” instaurato tra sviluppo del PIL, decremento del NON PIL, finanziarizzazione dei ricavi e accollo dei costi su di un conto perdite, tendenzialmente infinito, intestato all’intera società.