Non è difficile trovare motivi per preoccuparsi. Non bisogna neppure fare lo sforzo di cercarli: sono loro che cercano noi. Dai titoli dei giornali sono ormai atterrati sul nostro estratto conto, sullo scontrino del supermercato, sul modo di passare il weekend, sui litri di benzina da chiedere al distributore, sui progetti definitivamente accantonati.

Il timore che non si tratti di una crisi passeggera ha ormai cessato di essere solo un timore e la spiacevole sensazione di scivolare verso il basso senza avere idea di come arrestare la caduta fa ormai da sfondo ai nostri pensieri. Le ricette che politici ed economisti confezionano il lunedì non sono più buone il martedì e le previsioni degli esperti assomigliano ormai pericolosamente ai luoghi comuni del pessimismo da bar.

E non si tratta più solo di noi o di questa stagione, si tratta del futuro nell’ordine degli anni, dei decenni; della possibilità per i nostri figli di trovare o non trovare un lavoro stabile e –conseguentemente- di mettere su famiglia e di poter avere figli senza che questo sembri un folle azzardo e una sfida al buon senso, insomma di vivere una vita “normale” come quella che abbiamo avuto noi.

E’ davvero facile trovare motivi per disperare, difficile è trovarne per non disperare.

E allora proviamoci.

Iniziamo ad ampliare l’orizzonte entro il quale siamo abituati a ragionare, quello della nostra vita biologica. Senza accorgercene riteniamo la nostra vita il centro della storia e finiamo per considerarla il termine di paragone di tutto. Quando diciamo che temiamo che il futuro sarà più difficile, che la vita dei nostri figli sarà più difficile, a quale termine di paragone ci stiamo riferendo se non a noi stessi e alla nostra generazione? E perché non –ad esempio- a quella dei nostri genitori o dei nostri nonni o bisnonni? E poi siamo proprio sicuri che abbia senso fare questi paragoni? A che serve? A chi serve? Eppure gran parte della nostra ansia nasce proprio da qui.

La scorsa settimana ho incontrato una ragazza venticinquenne (una laurea, un lavoro provvisorio, un futuro imprevedibile… insomma come tutti) che mi confessava candidamente di non sentirsi né particolarmente fortunata, né particolarmente sfortunata, si sentiva come un giocatore all’inizio della sua partita: si concentra, cerca di valorizzare la sua preparazione, si impegna, prova a giocare con intelligenza… poi la partita andrà come andrà, le capacità e l’impegno faranno i conti con le avversità e le casualità e alla fine, quale che sia il risultato, quella sarà stata la “sua” partita, e chissenefrega se quella dell’anno prima era andata meglio o peggio, quella non era la “sua”.

Insomma il messaggio è: “ho capito che ci sono stati altri tempi in cui era più facile trovare lavoro, avere stabilità, fare figli e invecchiare ricamando… ma la mia vita è adesso e vorrei potermela giocare per quella che è”.  A pensarci bene ci sono anche stati tempi in cui era difficile trovare cibo a sufficienza, imparare a leggere e superare i quaranta eppure eccoci qui, siamo i figli di quei tempi e stiamo ancora a raccontarcela.

Un secondo passaggio è rinunciare (davvero) alla convinzione che la maggiore o minore felicità  di un gruppo sociale (e delle singole persone che lo costituiscono) dipenda solo da quelle variabili che ci ostiniamo a considerare come unici indicatori: la capacità di produrre reddito e la garanzia di stabilità. Sappiamo benissimo che non è così. Conosciamo tutti persone senza  problemi di reddito e con solide garanzie di stabilità che tuttavia non ci sogneremmo mai di definire felici. Sappiamo benissimo che su questo tavolo pesano in modo determinante altre variabili: le prime due che mi vengono in mente sono il rapporto con il tempo e l’equilibrio tra quello “che sai, che vuoi e che fai“. Si tratta di variabili che non hanno molto a che vedere con la capacità di produrre reddito e con le garanzie di stabilità, e  chissà che invece su questo fronte le nuove generazioni non abbiano qualcosa da insegnarci e non riescano clamorosamente ad essere più felici di noi? (Non era quello che dicevamo di volere?)

Siamo noi a decidere se le cose che ci accadono sono tollerabili o intollerabili: dipende da come le leggiamo e le rapportiamo alla nostra vita. E questo vale anche per il periodo che  stiamo attraversando.

Forse sarebbe meglio recuperare una maggiore distinzione tra il piano politico e quello personale. Se sul piano politico occorre usare tutta la nostra intelligenza, capacità di analisi, immaginazione, determinazione per ottenere il miglior risultato possibile in termini di stabilità e prospettive di sviluppo, sul piano personale occorre fare qualcosa di più: recuperare leggerezza e sdrammatizzare la portata epocale di ogni scelta. La storia è andata avanti secoli senza di noi, limitiamoci a giocare bene la nostra partita e a cercare di essere un po’ felici (se ci riusciamo). Avere paura non e’ mai stata una buona idea.