Mai come ora è stato necessario ridare vita e cuore alla frase di J.F.K. “Non chiederti che cosa può fare il tuo Paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. La politica reale dovrà vivere sulla capacità di organizzare dal basso soluzioni ai problemi dovunque ed in qualunque campo gli strumenti tradizionali non siano sufficienti
UN PASSAGGIO DIFFICILE
Con tutto ciò che ognuno di noi può esser capace di giudicare o, addirittura, di prevedere, restiamo comunque attoniti verso quello che potrà succedere nei prossimi mesi, anni o ancora più in là. È per questo motivo che dobbiamo essere indulgenti verso quelli di noi che provano a disegnare gli equilibri e i contorni di un futuro possibile; perché oggi più che in passato tutti dobbiamo renderci partecipi in questa funzione di ricerca. A questa indulgenza vorrei fare appello per proseguire i miei piccoli tentativi di analisi e sintesi, alla scoperta di quello che potremo trovare “domani”. Osserviamo, intanto, che è in corso una sfida; un confronto che fino ad ora il vecchio occidente industrializzato non ha saputo interpretare, verso le economie emergenti trainate globalmente dallo sviluppo cinese. Vorrei partire facendo la più ovvia e banale delle osservazioni: il sistema comunista cinese ha adottato i metodi dell’economia di mercato; ma questo, provando ad andare ancora un poco più a fondo, non rappresenta una unicità storica soltanto dal punto di vista quantitativo. Vale a dire che non è importante, o addirittura spettacolare, unicamente il fatto che un gigante come la Cina sia stato capace di trasformarsi ad un ritmo tanto prepotente da divenire il padrone quasi del tutto incontrastato dell’economia mondiale. Bisogna invece mettere un’attenzione ancora più marcata, per dirla così, al dato qualitativo; dobbiamo cioè osservare che per la prima volta nel mondo, e dopo secoli e secoli, un sistema totalitario agisce utilizzando gli strumenti dell’economia di mercato la quale, non credo d’ingannarmi, aveva invece avuto il maggiore sviluppo proprio come diretta conseguenza della moderna ideologia liberale e democratica. La locomotiva dell’economia mondiale, non vuole semplicemente produrre maggior ricchezza al proprio interno; altrimenti avremmo assistito ad una migliore attenzione da parte del governo cinese a come la ricchezza prodotta possa venir ripartita all’interno della propria nazione. Al contrario il gigante asiatico si prefigge un ambiziosissimo obiettivo politico: vuol portare il treno della civiltà mondiale, e con ciò il perno del potere, dalla parte dell’oriente. E questa finalizzazione dello sforzo economico della Cina si evidenzia in modo nettamente definito in un particolare che però è pienamente esemplificativo:
la dichiarazione dell’intento di inviare propri astronauti sulla luna. Ora sappiamo, quindi, che il collasso cronico delle risorse ambientali cui viene sottoposto ad un ritmo impressionante l’ecosistema della Cina, viene finalizzato all’obiettivo di supremazia politica ed economica mondiale che i potenti cinesi hanno già inquadrato nel mirino. Il fiume Yangtze, terzo fiume più grande al mondo, è diventato la fonte d’inquinamento principale di tutto l’oceano Pacifico, perché il regime Cinese vuole dichiaratamente raggiungere un traguardo che la nostra civiltà, pur stanca e matura, ha raggiunto quarant’anni or sono. Chiediamoci allora se, all’attacco del terzo millennio, l’intero mondo può permettersi di porsi al seguito di chi insegue miti vecchi di quasi mezzo secolo. La folle corsa della Cina, consentitemi, verso il raggiungimento di mete di civiltà già pienamente consunte potrebbe costare cara al mondo intero in termini di prosperità futura.
Riequilibrare le risorse del mondo, certamente anche a beneficio delle popolazioni cinesi, è scopo troppo serio e cruciale, a questo punto, per lasciarlo alle mire “opportuniste” se non addirittura “revansciste” di qualunque regime totalitario. Ed è qui, a mio modestissimo parere, che si gioca lo scenario da disegnare per uscire dalla crisi in cui il vecchio mondo occidentale si rende conto di essere caduto, alla infruttuosa rincorsa del coefficiente di competitività raggiunto da diversi e differenti nuovi protagonisti della scena economica mondiale; tutti al rimorchio, in un modo o nell’altro, della “locomotiva cinese”. E addirittura, guardando la questione in termini più strettamente politici, la democrazia rischia di perdere per la prima volta nella storia del mondo una battaglia importantissima che nel passato aveva sempre vinto contro il totalitarismo: quella dell’economia di mercato. Non serve dire che l’India, altro gigante dell’economia contemporanea, e il Brasile, colosso anch’esso in rapidissima ascesa nella crescita del PIL (cresce il PIL del Brasile e sparisce la foresta amazzonica, fornitore di “aria” per l’intero pianeta), sono entrambe democrazie già solide ed in via di un ulteriore forte irrobustimento. Non sono un economista ma, allo stato attuale e mantenendosi gli stessi equilibri nello sviluppo, il sistema cinese resta il competitore principale e anche il più pericoloso contro il differente sviluppo che invece richiederebbe il passaggio di civiltà mondiale a cui siamo arrivati. E questa difficoltà viene aumentata non poco dalle conseguenze della politica facilona e miope posta in atto dalle precedenti amministrazioni americane nell’ambito della gestione del sistema internazionale del commercio.
Se tutto questo è vero, se queste riflessioni possono trovare sufficiente possibilità di condivisione, inviterei qualunque destinatario di questo articolo ad abbandonare l’inutile posizione del pessimismo attendista ed a attivarsi, invece, per chiedere alla politica l’apertura di un fronte di competizione internazionale totalmente nuovo, secondo ciò che effettivamente occorre alla salvezza e al progresso della civiltà mondiale. Oltretutto pare proprio che questa rinascita debba partire obbligatoriamente dal vecchio continente europeo. Non è, questa sintesi, il risultato di un qualche ritorno demodé di “eurocentrismo”. Politici capi di stato e giornali internazionali ci hanno infatti ripetuto più volte, e mai si sono smentiti, che la tenuta e la coesione sociale dell’Europa, ed in particolare dell’Italia, è l’elemento cruciale per la salvezza dell’economia “mondiale” (Cina esclusa perché torno a ripetere che finanziariamente la Cina, anche faticando, può salvarsi coi mezzi di cui dispone). Ma tenuta e coesione sociale a questo punto non si possono ottenere con i vecchi obiettivi di salvezza di un mercato in cui contano e hanno sempre contato pochi furbi prepotenti. Occorre batterci per darci un orizzonte ideale del tutto nuovo e diverso da quelli che abbiamo visto, vissuto o misurato fino ad oggi. In termini di povero paragone, la Cina ha stabilito che il proprio sviluppo politico complessivo deve rimontare un “gap” di quarant’anni rispetto alla civiltà occidentale. Dobbiamo riuscire ad alzare l’asticella almeno fino al limite dei sessanta anni e cominciare a mandare in tilt il piano di sviluppo suicida che i dirigenti cinesi hanno dato al loro Paese. Soltanto così, facendo continuamente saltare il conto della rimonta, riusciremo a farli stancare ed a portarli assieme al resto del mondo verso la condivisione dell’obiettivo di riequilibrare le risorse ambientali ed economiche del pianeta. Se questi argomenti, almeno in parte sufficiente, potessero trovare condivisione sarebbe dovere di ciascuno, per parte specifica di tempo, sensibilità e competenze, mobilitarsi per chiedere e dare vita ad una politica realmente nuova; che possa prendere vita in partiti realmente rinnovati e fuori dalla logica della carriera e del potere come primo obiettivo; come passo immediatamente successivo collaborare, anche in dimensione locale, al disegno di una società profondamente differente, in cui mercato e stato compiano un salto di sviluppo ulteriore che li porti in prospettiva più prossima al servizio delle persone. Perché la democrazia viva un passaggio di rinnovamento totale che ne possa irrobustire di nuovo i meccanismi a reale difesa di un mondo libero, veramente “eguale” e solidale.
Per fare questo chiunque intenda recuperare la vera tradizione liberale, chi si senta di dare finalmente vita a quel movimento di reale apertura sociale che da molti è indicato come liberal – laburismo, dovrebbe battersi unendo gli sforzi per un pluralismo sociale il più ampio possibile. Accogliere in pieno la sfida del pluralismo sociale, significa infatti creare spazio per meccanismi economici alternativi e concorrenti rispetto a quelli della finanza classica, dando maggior peso finanziario e monetario al recupero e alla salvaguardia degli equilibri ambientali; così l’Europa comunitaria, trovando concrete ragioni di coesione proprio su questo scenario, potrà porre a propria volta la sfida ambientale contro chi invece logora le risorse naturali con scopi egemonici nell’ambito dei sistemi classici dell’economia finanziaria. È necessario infatti, finché se ne avrà tempo e forza sufficiente, porre forti vincoli relativi alla tenuta d’equilibrio dell’ecosistema ai vecchi metodi di sviluppo della ricchezza. In concreto, per noi, mai come ora è stato necessario ridare vita e cuore alla frase di J. F. K. “Non chiederti che cosa può fare il tuo Paese per te, ma chiediti che cosa puoi fare tu per il tuo Paese”. La politica reale dovrà vivere infatti sulla capacità di organizzare dal basso soluzioni ai problemi dovunque ed in qualunque campo gli strumenti tradizionali non siano sufficienti; dovrà creare spazi di sussidiarietà partecipata innanzitutto nel campo dell’occupazione, della sanità, dell’assistenza e della formazione. Dovrà creare reti sociali in cui tutti offrano impegno ed ottengano benefici secondo le proprie capacità e legittime aspettative, cosa questa che in Italia è mancata per troppo tempo; ed in questo in effetti risiede il motivo più grande e profondo della nostra crisi nazionale. Prima nascerà una fiducia realisticamente condivisa attorno alla possibilità di cogliere questo traguardo, prima il mondo intero avrà passato questa dura temperie all’inizio di un millennio che sarà nuovo per questi ed altri infiniti aspetti.