Una riflessione da lunedì mattina. Di quelle che ti puoi permettere nel giorno assolato dello scampato nubifragio, la catastrofe cui il nostro Sindaco Alemanno ci stava preparando da settimane (tombini impazziti e pioggia di rane, tipo novello armageddon).

Insomma, tra meno di 15 anni nessuna città italiana figurerà più tra quelle ritenute maggiormente significative nel mondo per capacità di produrre reddito e per qualità di vita offerta ai suoi abitanti.

È quanto afferma uno studio recente intitolato “Urban world: mapping the economic power city”,  promosso dal McKinsey Global Institute (LINK). 

Secondo le stime, nel 2025 nessuna delle 23 città italiane comprese ancora nel 2007 nel ranking delle top 600 sarà  più in questo elenco delle virtuose. A vantaggio invece di  altre realtà, di cui ben 136 nei “Paesi emergenti” – leggi BRIC – 100 in Cina, 13 in India e 8 in Sud America.

Con una concentrazione della capacità di generare reddito che si addenserà sempre più tra le prime arrivate in classifica. Si prevede così che le prime 100 città produrranno il 35% del Pil globale, laddove le restanti 500 una quota del 25%. E gli altri centri che ne sono fuori? Briciole. Non a caso ci si attende per l’Italia una crescita minima rispetto al 2007 per quanto riguarda l’apporto alla costruzione del Pil mondiale.

Stiamo assistendo insomma a uno spostamento dell’ombelico del mondo verso sud e verso est, così come era stato ampiamente previsto.

Non è la fine del mondo, per carità. Si tratta di un processo di redistribuzione delle ricchezze che sta comportando un cambiamento necessario dei nostri stili di vita. All’insegna, in prima battuta, di una maggiore morigeratezza nei consumi e nelle aspettative.

E d’altra parte a queste latitudini abbiamo già visto qualcosa del genere. Non credo che un abitante di Roma nel V secolo d.C. abbia assistito con minore stupore all’ascesa di Bisanzio e al progressivo sgretolamento della Basilica Giulia nel Foro Romano. Rispetto ad allora, se non altro, abbiamo a disposizione capacità previsionali e strumenti di analisi sofisticati, che ci permetterebbero almeno di porre un argine allo scivolamento più valido rispetto all’arroccamento sul Danubio di tardoantica memoria.

Si chiama scommessa sulla competitività, sul domani, possibilmente corredata da seri studi di fattibilità affidati a qualcuno che non abbia né le sembianze né le competenze di un qualche rifiorito Batman.

Ma che qualcosa stia cambiando nelle nostre città, al di là del McKinsey Global Institute, ce lo dice già la vita. A cominciare da alcune piccole variazioni negli elementi di paesaggio.

Un esempio? Tra le misure di austerità previste dal governo all’interno della Legge di Stabilità c’è quella che in gergo giornalistico è stata definita l’operazione “Cieli bui”. Un provvedimento che porterà a spegnere e affievolire luci e lampioni nelle strade delle nostre città per risparmiare energia e soldi pubblici.

E forse è proprio vero, come sostiene scherzoso Beppe Severgnini sul Corsera (LINK), che il Paese ha bisogno di un po’ di buio e di raccoglimento per riflettere, prima di riaccendere la luce.

Ma l’interruttore dovremo azionarlo noi, non altri. C’è solo da sbrigarsi e prenderene atto (del buio) e darsi da fare (per la luce).