“Sostenibile” è certamente un aggettivo moderno, utilizzatissimo e di incontrastato successo; del resto chi difenderebbe mai l’insostenibilità? “Sostenibile” è un aggettivo accattivante, positivo e rassicurante. Forse, però, proprio queste sue innegabili qualità sono anche il suo limite. “Sostenibile” definisce infatti solo il risultato di un processo, di un lavoro, di una trattativa, senza nulla dire sul merito, sul contenuto e sulle condizioni di questa sostenibilità. Un po’ come quando diciamo che vorremmo una società più giusta, un fisco più equo, una vita migliore, relazioni più sane… tutti obiettivi condivisibilissimi visti da lontano che diventano gineprai divisivi quando si deve decidere più giusto per chi, più equo come, migliore in che senso. L’obiettivo condivisibile è il desiderio, il ginepraio divisivo è la realtà.
Il termine “sostenibilità” è particolarmente appetibile perché promette stabilità ma, al contrario, essa è per definizione una condizione precaria, come ogni equilibrio tra forze di segno opposto. La vera sostenibilità è il risultato -prezioso ma temporaneo- di un compromesso tra esigenze che si contrappongono.
Una sanità sostenibile -ad esempio- indica il punto di equilibrio tra le esigenze di prevenzione e cura e le risorse/competenze (umane ed economiche) che occorrono per rispondere a quelle esigenze: se queste risorse fossero illimitate il livello di sostenibilità potrebbe salire fino a rispondere in modi e tempi ottimali alle esigenze di prevenzione e cura, ma -se le risorse sono limitate- occorre perseguire il livello di sostenibilità più alto possibile in quella situazione. Un equilibrio precario che potrebbe migliorare o peggiorare col modificarsi delle variabili in gioco: le esigenze da una parte e le risorse dall’altra. La sostenibilità non è mai assoluta e stabile, è precaria come ogni equilibrio fra variabili mutevoli.
Lo stesso discorso si può fare per la sostenibilità sociale, ambientale ed economica. La sostenibilità insomma, non è una parola magica che rende bello ciò che bello non è; è piuttosto un termometro con cui misurare quanto siamo bravi (o non bravi) ad equilibrare esigenze e risorse, riuscendo ad intervenire sulle une e sulle altre. Qui il discorso si sposta ovviamente sulla strategia di intervento per migliorare l’equilibrio: ridimensioniamo le esigenze (la decrescita felice) o aumentiamo le risorse (o almeno le distribuiamo in modo diverso)?
E ancora, ragioniamo di sostenibilità considerando le esigenze di chi? (della mia famiglia? della mia regione? del mio paese? di tutti gli abitanti del pianeta?); ragioniamo di sostenibilità considerando solo noi che viviamo adesso o anche le generazioni future?
Decisamente la sostenibilità non è una qualità astratta e neutra, essa dipende dai perimetri che tracciamo sulle carte geografiche, sulle mappe delle esigenze a cui decidiamo di dare priorità e sulle mappe “umane” delle persone che consideriamo dentro o fuori l’ambito di cui ci stiamo facendo carico.
Temo allora che “sostenibile” non sia solo un bell’aggettivo, ma il cuore della sfida che siamo chiamati ad affrontare, nel piccolo delle nostre decisioni personali e nel grande delle decisioni politiche ed economiche. Dobbiamo -senza ambiguità- tracciare il perimetro di cui vogliamo e possiamo farci carico e poi lavorare perché le esigenze e le risorse di chi è dentro raggiungano un equilibrio accettabile. Senza questa concretezza rischiamo l’insostenibile leggerezza che confina con l’aria fritta.