Oggi comincia in commissione giustizia al senato l?esame del ddl sui cosiddetti Dico. Mi permetto suggerire di non correre. Non è il caso. Non solo perché il governo ha indicato altre priorità, ma perché in questa situazione sfugge la ragione della fretta. Allo stato, infatti, pare non esistano le condizioni perché il provvedimento possa arrivare persino in aula e, se fossero create, avverrebbe per scelta delle opposizioni interessate a una spettacolarizzazione di un?altra divisione della maggioranza e, soprattutto, dell?affossamento definitivo del provvedimento, almeno per la durata di questa legislatura.
In politica non è mai utile sfidare la realtà. Non sto dicendo che è giusto fare così per ragioni di merito.
Personalmente anzi continuo a pensare che la mediazione Bindi- Pollastrini sia la migliore possibile, indiscutibilmente rispettosa del principio iscritto nell?articolo 29 della Costituzione e che (questo vale per i parlamentari credenti) rappresenti una mediazione accettabile e rispettosa del ?principio non negoziabile? fissato dal magistero ecclesiale in materia di famiglia e matrimonio.
Sto semplicemente sostenendo che chi non vuole affossare la soluzione trovata al problema di alcuni diritti soggettivi per chi sceglie forme di convivenza non istituzionali, deve oggi considerare la necessità di una sosta, cioè, di una pausa di ulteriore riflessione che favorisca il superamento dell?attuale clima di tensione e ruvida conflittualità. E, soprattutto, che consenta al governo di dimostrare preliminarmente, con il linguaggio dei fatti, una strategia di reale sostegno all?istituzione famiglia.
Dopo potrebbe essere più facile sbloccare una parte delle attuali resistenze, almeno quelle di quanti sono realmente preoccupati delle condizioni difficili in cui si trovano oggi le famiglie con figli da crescere ed educare, e non di meno dei giovani che hanno intenzione di mettere su famiglia.
Prima la lotta al precariato, gli assegni familiari molto più consistenti, i bonus per i figli sino al diciottesimo anno, gli asili nido, eccetera, poi i Dico: a quel punto solo chi è in cattiva fede potrà dubitare della reale volontà del governo di sostenere (più di ogni altro governo precedente compresi quelli democratico cristiani) la famiglia.
Ma non vorrei lasciare isolata l?affermazione che ho fatto in precedenza circa la non contraddizione del progetto dei Dico con l?insegnamento della Chiesa. So bene che la valutazione della Chiesa è in proposito oggi diversa e so anche che non compete a me l?esegesi dei documenti del magistero.
Desidererei però, non dico discutere, ma almeno avere la possibilità di spiegare le nostre ragioni con spirito filiale e costruttivo.

Non prima di aver precisato (non certo alla gerarchia che ne è ben consapevole) che i cattolici democratici, quali noi ci definiamo, non sono cattolici del dissenso, ma cattolici che, senza mettere in discussione la loro appartenenza ecclesiale, hanno scelto di accettare convintamene la democrazia e le sue regole come luogo e metodo per costruire la città dell?uomo, cioè di tutti gli uomini.
Di fronte alla corrosione del sistema di valori che ha consentito per lunghi decenni la coesione delle società industriali, tra cui sicuramente quello della famiglia (secondo l?Istat in Italia negli ultimi 30 anni il numero dei matrimoni si è quasi dimezzato e oggi quasi un matrimonio su due fi- nisce nei primi cinque anni di vita), i cattolici democratici sono tra coloro che si chiedono quali siano le ragioni di tale fenomeno.
Papa Benedetto XVI a Verona ha detto che il nostro paese è «bisognoso perché partecipa di quella cultura che predomina in occidente e che vorrebbe porsi come universale e autosufficiente, generando un nuovo costume di vita». Noi pensiamo che sia proprio così. E, se da una lato riteniamo che si debba porre in discussione quel modello di sviluppo che genera tali effetti al punto che i politici cristiani dovrebbero sempre più essere incalzati proprio su questo, dall?altro sappiamo che la nostra responsabilità di uomini e donne impegnati in politica ci obbliga a guardare in faccia la realtà e i problemi nuovi che essa presenta. Fra questi sicuramente quello delle forme di convivenza diverse da quelle matrimoniali che stanno assumendo rilevanza sociale non trascurabile.
Come affrontare tale questione? Con risposte che comunque rispettino la Costituzione, cioè il valore della famiglia fondata sul matrimonio.
E ? per quanto riguarda noi credenti ? rispettose non di meno dell?insegnamento della Chiesa, assumendoci la responsabilità di proporlo e mediarlo in forma ?laica? e, cioè, accettabile anche per chi non è credente. Una impresa, nella fattispecie, piuttosto ardua, perché l?insegnamento della Chiesa è alquanto esigente e non ambiguo.
Ardua e con annesso rischio di incomprensioni ed errori. Ma non evitabile per chi è investito di rappresentanza popolare e di responsabilità politica.
Noi abbiamo la intima convinzione che la proposta dei Dico, sicuramente migliorabile, se letta senza pregiudizi, rispetti questi presupposti, o quantomeno non li violi e contraddica.
Il vice presidente della Cei, monsignor Luciano Monari, ha scritto un importante articolo (Avvenire, 10 febbraio 2007) che apre la possibilità di un dialogo, in cui si legge: «Il motivo per cui non riusciamo ad accettare i pacs, o similia, come nuova figura giuridica non è etica, ma politica. Non diciamo le convivenze sono contro la morale cattolica e quindi siamo contrari a riconoscerle giuridicamente.
Diciamo invece: le convivenze sono rischiose per il bene della società e per questo siamo contrari a una loro legalizzazione». Si tratta di un ragionamento molto serio che ha il pregio di aprire a una interlocuzione.
Se il problema è politico sarà consentito anche agli uomini politici dire la loro, cioè il loro modo di vedere e affrontare una questione che ha una effettiva rilevanza politica. Se così non fosse si aprirebbe una questione molto seria sulla possibilità per i cristiani di assumere ruoli e responsabilità di rappresentanza, di coabitazione e convergenza con chi cristiano non è.
Se fosse cioè preclusa o eccepita la possibilità per i laici cristiani impegnati in politica di intraprendere iniziative di mediazione in sede temporale delle posizioni dottrinali in cui essi si riconoscono (senza pretesa né mandato a rappresentarle, beninteso), si determinerebbe una paralisi per ragioni etiche della funzione politica cui compete, appunto, di creare e costruire punti di intesa e soluzione ai problemi.
Pensavo proprio a questo leggendo la stampa spagnola di queste settimane, piena di discussioni simili alle nostre (?Euroethos, Liberdad de morir, El PP vota contra a la ley de los transexuales, Andaluxia garantiza la desconexion del respirador de Echevarria?: tutti titoli che non necessitano d?essere tradotti). In più e di diverso dall?Italia c?è un altro tema: «I vescovi chiamano alla ribellione contro l?insegnamento dell?educazione civica» dichiarando la legittimità dell?obiezione di coscienza perché, si dice da parte della Chiesa, lo Stato non può educare la coscienza dei cittadini.
Questione sicuramente intrigante. E però? come si fa ad evitare che si possa giungere a questo rischio di conflitto anche qui? Non so quale capo di governo, se di sinistra o di destra, domani potrebbe essere chiamato ad una iniziativa di educazione a uno spirito di cittadinanza condivisa, qualora oggi da parte dei parlamentari cristiani si rinunciasse a trovare un punto di intesa con altri.
Ecco a noi sommessamente pare che il progetto dei Dico risponda a questi presupposti.
Forse sbagliamo. Siamo pronti a parlarne senza chiusura e mancanza d?ascolto della parola dei nostri vescovi. Per queste ragioni conviene non procedere oggi con troppa fretta in sede parlamentare.
Il tempo può aiutare una maggiore comprensione e una più serena discussione fra tutti i gruppi di maggioranza e opposizione. Almeno fra quanti sono disponibili a rinunciare a posizioni pregiudiziali.

EUROPA