La curiosità intellettuale e la gentilezza di un colto amico ci hanno consentito di leggere un piccolo volumetto di Serge Latouche sulla “concreta utopia” della decrescita, un intenso esercizio di ricalibrazione dei nostri valori economici articolata su otto magiche “R” (rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare) intese a riposizionare la nostra vita verso una “decrescita serena, conviviale e sostenibile” che risulterebbe antitetica rispetto alle “follie” del nostro oggi (Serge Latouche: Breve trattato della decrescita serena, Bollati Boringhieri).
Confesso di trovare l’utopia delle tesi suggestive di Latouche meno “concreta” di come l’economista francese la dipinge, al punto da ritenerla una utopia tout court, in realtà configgente, almeno per ora, con le aspirazioni incontenibili al benessere di tanta parte del mondo (che tuttora ne è escluso) e con le esigenze di conservazione del benessere dell’altra parte del mondo (di cui facciamo parte).
Non mi sfugge però la domanda inquietante postulata dalle tesi di Latouche: il benessere del nostro mondo è arrivato a toccare – proprio per questa parte del mondo di cui facciamo parte – un suo intrinseco limite di sostenibilità?
Non lo so. Non ho un’opinione seria al riguardo né dispongo della cultura necessaria per tali tipi di sintesi, che pure mi affascinano: per dire qualcosa al riguardo bisognerebbe possedere strumenti di lavoro e sviluppare tipi di indagine che sono al di là delle mie possibilità (chi vuol fare buone letture sul tema può prendersi anche i libri più recenti di Jeremy Rifkin). 
Ma vorrei tentare di proporre, avendo riguardo a ciò che mi capita di osservare nel nostro Paese, un altro angolo di ragionamento  basato, invece che sulla decrescita, sulla ricrescita: non alludo a quella economica (cui il nostro Paese aspira disperatamente, con buona pace di Latouche) ma a quella umana che forse compendia in sé le potenzialità culturali della decrescita di Latouche, in fondo risultando più alla portata dei nostri orizzonti e, per quanto ci riguarda come comunità, più centrata sul nostro presente e sulle esigenze che questo mi pare porre con urgenza.
L’Italia sta attraversando, secondo me, un periodo molto oscuro, non solo dal punto di vista economico ma, mi pare di poter dire soprattutto, dal punto di vista umano (che vuol dire, bensì, culturale e sociologico, ma anche valoriale e morale). Mentre dal punto di vista economico “siamo declinati credendo di crescere” (Marco Revelli: Poveri noi, Einaudi), dal punto di vista politico si sono rotti i tradizionali legami coi principi della rappresentatività politica, si è incrinato il rapporto di fiducia nella capacità della classe dirigente (ove sia mai esistita in Italia) di assicurare un’ordinata diffusione del benessere, al riparo da ruberie e prepotenze, si è contratto e confuso il rapporto con la nostra stessa cultura e con la nostra identità nazionale, nemmeno l’autorevolezza morale della Chiesa ha resistito al deterioramento; ma – quel che è ancora più grave – si va sfarinando, così mi pare, anche il collante umano della nostra società.

Mi pare però certo che se tutti ci convincessimo, come fa Bernard Rieux, l’eroe laico de La peste del super-laico Albert Camus, che “ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare”; se ci convincessimo che la moderazione dei giudizi non è flaccidità dell’animo (il vituperato “buonismo”); che, anzi, è un valore (o, se volete, una virtù anche civile non solo personale) essere semplicemente “buoni”(non “fessi” né irresponsabili, ma semplicemente “buoni”, generosi, magnanimi, aperti); che comprendere (e,sì, perdonare) è più nobile del condannare (e assai più intelligente che condannare sommariamente); che “il rilancio delle virtù civili” parte “dal profondo della nostra coscienza e non da semplici pulsioni individuali” (G. De Rita- A. Galdo: L’eclissi della borghesia, Laterza); se riuscissimo a fare tutto ciò attingendo alle risorse culturali delle nostre migliori radici, non avremmo fatto ben più, con questa ricrescita della nostra umanità, che non con una improbabile decrescita economica? E senza postulare il consenso degli altri, ma partendo solo da noi stessi.