Quando una situazione diventa insostenibile si scappa, si cerca una via di fuga. Molti ucraini sono scappati dal loro paese perché la loro sicurezza e la loro stessa sopravvivenza è stata messa a rischio dalla guerra. Spesso è stata una decisione obbligata, non l’effetto di uno stato d’animo o l’esito di una valutazione politica.
Anche noi vorremmo scappare dalla guerra, cercare una via di fuga, non perché le nostre case siano state distrutte o la nostra sopravvivenza sia in pericolo, ma perché non ne possiamo più né di parlarne, né -in misura ancora maggiore- di sentirne parlare. Ogni giorno cresce il livello di saturazione, percepiamo con chiarezza la sterilità di tutto questo parlare, dibattere, auspicare, maledire, raccontare le stesse vicende e riascoltare le stesse interpretazioni. Ci sono momenti in cui i telegiornali sembrano una di quelle fiction -noiose e ripetitive- nelle quali non si capisce dove gli sceneggiatori vadano a parare, sembra quasi che non lo sappiano neanche loro, fiction che potrebbero durare ancora una puntata o altre cento. Il fatto che invece sia tutto vero (dolore, paura, violenza, angoscia, morti) incredibilmente non riesce ad impedirci di annoiarci per la ripetitività, l’assenza di un senso e l’attesa frustrata di un evento risolutore che non sapremmo indicare (o preferiamo non farlo) sospesi tra improbabili miracoli, temuti allargamenti del conflitto e apocalissi atomiche.
Anche noi, dunque, vorremmo scappare, cambiare canale, parlare d’altro, pensare all’estate, alla fine della pandemia, al piacere di poter fare di nuovo progetti per il futuro. Ma scappare si può? E’ giusto farlo? E’ saggio? Dovremmo vergognarci della noia che -nostro malgrado- ci prende e prelude al disinteresse e all’indifferenza? Non ci siamo fatti eccessivi scrupoli a dimenticare le guerre di Yemen, Afghanistan, Siria, Etiopia, Mali…, ma è stato più facile: sono guerre “lontane”, sono paesi che non ci vendono gas o petrolio, sono eventi che non ci cambiano le bollette, non producono inflazione, sono guerre che ci possiamo permettere il lusso di dimenticare… ma questa?
Questa guerra ci appare diversa, non solo per le bollette rincarate e l’inflazione: le vittime sono molto più simili a noi, più simili ai nostri i loro ragionamenti, le loro case, le loro macchine, i loro supermercati, le loro paure. La distanza che separa la guerra raccontata dalla vita vissuta si è pericolosamente ridotta. Questa guerra la sentiamo più vicina perché ci fa più paura e forse è proprio da questa paura che possiamo ripartire per ristabilire le proporzioni, trarne insegnamenti e capire cosa possiamo modificare per non ritrovarci a scegliere tra l’angoscia dell’imminenza e l’indifferenza da rimozione.
E’ una guerra grave, violenta e crudele, ma -malgrado ogni evento venga descritto giornalisticamente come “epocale”- non ha le dimensioni di recenti conflitti (Balcani, Iraq, Siria…), né il coinvolgimento esplicito di numerosi paesi sul campo come in quei conflitti; questo non la rende certo meno preoccupante o cruenta, ma non siamo di fronte ad un conflitto mondiale e se è possibile -purtroppo- ipotizzare questa prospettiva, sono possibili anche sviluppi meno catastrofici con la ripresa di negoziati e dialoghi che potrebbero essere già in corso, ma per ragioni tattiche nessuna delle parti ha interesse a rendere noti.
Uno degli aspetti più evidenti di questo conflitto è il peso determinante del linguaggio utilizzato per commentarlo, “ne uccide più la lingua che la spada” e dovremmo aver imparato che chi avvelena la comunicazione avvelena le relazioni, sottrae ossigeno al dialogo e favorisce gli esiti peggiori. Questo -almeno- possiamo e dobbiamo evitarlo: maggiore sobrietà, meno superlativi e meno demonizzazioni/canonizzazioni preventive.
Vorremmo scappare ma non abbiamo molte via di fuga e quando da una situazione difficile non si può fuggire è -come sempre- meglio affrontarla che subirla: parliamo della guerra ma senza trasformare ogni ragionamento in conflitto, razionalizziamo gli eventi nel quadro -ancorché drammatico- della loro proporzione reale, evitiamo di alimentare le apocalissi anticipate (guerra nucleare, inverno al gelo, cosacchi a Piazza san Pietro…) sostenendo la speranza finché c’è un margine -anche piccolo- su cui fondarla.